Aspettando Godot, e la pace
Il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite hanno allietato la fine del 2017 mandando in scena delle condanne nei riguardi degli Stati Uniti per aver deciso di spostare l’Ambasciata a Gerusalemme, pur sapendo che è una decisione che non cambia assolutamente nulla. Ma chi difende i palestinesi? Se la causa palestinese fosse stata abbracciata dai Paesi arabi, avrebbero dovuto consegnare loro Cisgiordania e Gaza nel 1948, anziché farle ricadere sotto la loro giurisdizione; e visto che Gerusalemme Est era finita sotto la giurisdizione giordana, quale migliore occasione per renderla capitale palestinese? Invece, sono solo rimasti 19 campi profughi in Cisgiordania e 9 a Gaza; è possibile che si viva in campi profughi a casa propria?
Non è nostro interesse muovere critiche, ma evidenziare che qualche cosa non torna nei riguardi dell’interesse nei riguardi sia della causa palestinese che di quella della pace. A parte i perennemente adirati, è paradossale vedere come i maggiormente interessati alla causa della pace siano ebrei, fra i quali qualche direttore d’orchestra assai generoso nelle esternazioni. Il quale, credendo di essere stato investito di una missione irenista soltanto perché agita bene la bacchetta, avanza delle proposte che lasciano esterrefatti, come quella di riconoscere lo Stato palestinese senza aver affrontato nessuno dei problemi sul tappeto. La colpa, però, non è sua, ma di chi ritiene che se sei un ottimo musicista sei pure un grande politologo. Potrebbero pure fare alla rovescia, decidendo che se sei un grande politologo sei pure un grande musicista, consegnando la prossima stagione operistica ad Angelo Panebianco. Non sarebbe opportuno che le proposte di pace le avanzassero anche i palestinesi e non i direttori d’orchestra?
Nei riguardi dei voti nel Consiglio di Sicurezza e nell’Assemblea Generale, ci vuole grande coraggio a dichiarare che lo statuto di Gerusalemme è intoccabile in attesa di un accordo fra le parti, ben sapendo quale sia lo stato di trattative note soprattutto per le violenze cui hanno dato luogo. Partecipare ad un rito inutile è molto più comodo che promuovere un accordo di pace che, senza l’impegno internazionale, non vedrà mai la luce. Attorno alle vicende di israeliani e palestinesi l’unico dato visibile è lo sfruttamento delle loro sofferenze per finalità di politica e finanche di commercio.
Quanto al nostro Paese, perché è andato a votare all’ONU condannando Israele se considera di non poter proporre o sostenere un’iniziativa seria di pace? Non è possibile sostenere che la questione gerosolimitana sarà demandata ad un accordo fra le parti, come se non si sapesse che il processo di pace è miseramente naufragato e che tanti Stati non se ne curano per via di tristissimi e modestissimi interessi di bottega. Il conflitto arabo israeliano è nulla di fronte alle stragi perpetrate nel teatro mediorientale. Eppure, per via del suo significato simbolico, non si fa il minimo sforzo per porvi rimedio. Domandate alle istituzioni ebraiche di tutto il mondo se si tratta di un conflitto geograficamente limitato.
Emanuele Calò, giurista