Periscopio – Gerusalemme
“Gerusalemme è mia!” “No è mia!” “È nostra!” “È stata mia per tanto tempo!” “Ma prima c’ero io!” “Ma poi l’hai lasciata!” “Non è vero, me l’hanno strappata!” “Ora è diventata nostra!” “È di tutti!” “Di tutti, tranne che tua”” “Io l’amo!” “Ma la voglio io!” “Se non ce la restituisci, ce la riprenderemo con la forza!” “Lasciala!”, “Ridammela, o ti ammazzo!”. Eccetera eccetera.
Dev’essere proprio bellissima, questa donna chiamata Gerusalemme, se tutti la vogliono. Non a caso, nella più bella poesia d’amore di tutti i tempi, l’amata è definita “navà ki Jerushalàim”, “bella come Gerusalemme”. Non può esistere bellezza maggiore. Tutti minacciano di fare pazzie per lei, si dichiarano disposti a uccidere, o a morire, per lei. Moltissimi non l’hanno mai vista, ma dicono comunque di amarla, di volerla a ogni costo, come accadeva per la bella e crudele Turandot.
Ma insomma, di chi è? In tempi in cui, per fortuna, si parla molto di rispetto delle donne e della loro libertà, vogliamo provare a chiedere alla diretta interessata a chi si vuole accompagnare? Sappiamo già che tutti l’amano, proviamo a chiedere chi ama lei. Magari, chi sa, la signora, dopo una lunga serie di delusioni amorose, preferisce restare single.
Il problema, però, com’è noto, è che lei non parla. Se ne sta stesa e immobile, tra gli ulivi e il deserto, ammantata di memoria e di silenzio. Ha un cuore (un cuore di pietra: com’è scritto nella canzone, “uvelibà chomà”, “nel suo cuore c’è un muro”), ma nessuno sa per chi batta. Rispettiamo la sua scelta di tacere.
Io direi, anzi, di abbandonare la categoria dell’amore, che, soprattutto quando si parla di donne, si è rivelata tante volte, nella storia, ambigua e distorta, gravida di violenza e sopraffazione. Se oggi si comincia a dire, finalmente, che le donne vanno rispettate nella loro libertà, non molto tempo fa un’idea ancora comune era invece che, chi amava una donna, poteva e doveva prendersela. Nel capolavoro di Luchino Visconti, “Rocco e i suoi fratelli”, del 1960, Simone (personaggio interpretato da Renato Salvatori) reputa insopportabile che la sua ex fidanzata si sia poi unita a suo fratello Rocco (l’attore Alain Delon), tanto da sorprendere la coppia con un gruppo di amici, di notte e in un luogo isolato, per violentare la donna davanti a tutti e poi picchiare selvaggiamente il fratello. E Rocco, dopo l’accaduto, dirà alla donna – a cui si era pure sinceramente legato – che non pensava che Simone “l’amasse tanto”, per cui, alla luce dei fatti accaduti, riteneva che lei avesse il dovere di tornare col suo ex. Anche questo era considerato “amore”, in Italia, appena qualche decennio fa, ed è ancora considerato amore in molti dei Paesi che dicono di amare perdutamente Gerusalemme. Amarla tanto da arrivare a stuprarla, aggredendo chi, forse, l’ama davvero.
Lasciamo perdere l’amore, allora, e usiamo altre parole, meno affascinanti e suadenti, ma probabilmente più affidabili, se non altro perché, in loro nome, nessuno ha mai ucciso o violentato nessuno. Parole come “rispetto”, “cura”, “attenzione”, “premura”, “compassione”. Che un novello re Salomone, quindi (non ebreo, per carità! dev’essere neutrale) chiami al suo cospetto tutti gli innumerevoli sedicenti mariti, amanti, fidanzati, pretendenti di Gerusalemme, e chieda loro, uno per uno, in che modo abbiano concretamente dimostrato per lei compassione premura, attenzione, cura, rispetto. Chieda loro, per esempio, quando l’hanno avuta tra le loro braccia, cosa abbiano insegnato ai loro bambini nelle scuole di Gerusalemme. Se ad amare il prossimo, o ad odiarlo. Se le abbiano concesso di essere visitata e abitata da altre persone, o l’abbiano invece tenuta segregata al mondo, o reclusa come una schiava. Se le loro preghiere, salite al cielo da Gerusalemme, o infilate, scritte su brandelli di carta, tra le fessure di un muro, abbiano contenuto auspici di serenità, pace e armonia, o piuttosto di morte e distruzione per i nemici. Se l’abbiano abbellita e adornata come un giardino, o come una regina, o non l’abbiano invece usata come una pattumiera. Se la diversità dei volti, degli abiti, dei profumi, dei colori, delle melodie, rappresenti per loro una ricchezza di Gerusalemme, o piuttosto una malattia da cui guarirla. Se credano che la sua terra sia sfregiata e profanata dal sangue su di essa versato, o ne riceva invece gloria, linfa vitale e nutrimento. Se pensano che quel sangue sia lo stesso sangue della città d’oro, oppure no. Se pensano che Gerusalemme gioisca o soffra per il dolore delle sue vittime, di qualsiasi colore. Se la immaginano soffrire come una madre, quando un suo figlio è strappato alla vita, oppure ghignare beffarda, come una strega, mormorando tra sé: “uno in meno”. Se credono che la città “troppo santa” preferisca libri o coltelli, parole o urla, mitezza o isteria. Vita o morte. Se pensano che, quando, l’ultimo giorno, com’è scritto, tutte le genti si riuniranno a Gerusalemme, debbano essere davvero tutte, o non sia invece meglio che una, una a caso, si sia fortunosamente persa per strada.
Alla fine, il saggio re deciderà, a suo insindacabile giudizio, a chi Gerusalemme dovrà essere affidata. Lo farà, immaginiamo, consapevole che la città “che non può essere dimenticata” non dimentica mai, a sua volta, il bene, e il male, che le è stato fatto. Attenzione, però: solo affidata, e solo per averne cura. Gerusalemme è una donna libera e orgogliosa, non è proprietà di nessuno. Prendersene carico dà solo responsabilità, non diritti. E solo alla fine dei tempi, forse, si saprà se il suo cuore di pietra abbia mai pulsato per qualcuno, e per chi.
Francesco Lucrezi, storico