Italia Ebraica gennaio 2018
Dalla tavola alla grande Storia
Intervenendo all’inaugurazione del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah il ministro dei Beni e delle Attività Culturali Dario Franceschini ha tra l’altro accennato alla tradizione gastronomica ebraica ferrarese ricordando “…la cucina dello storione e del caviale secondo le ricette ebraiche tramandate di generazione in generazione”. L’inciso può destare sorpresa, alla luce del fatto che storione e caviale non sono conformi alle leggi alimentari ebraiche della casherut, pur non mancando dei distinguo avanzati da alcune parti e, infatti, generalmente, le fonti che di queste regole si occupano tendono a indicare che il caviale deve provenire da pesci permessi. Anche l’industria alimentare si è cimentata, cercando soluzioni che potessero risolvere la questione. L’accenno del ministro, probabilmente a sua insaputa, richiama però a una particolarità ferrarese nella quale mi sono imbattuto, per la prima volta, cercando di decodificare (stante la non facile grafia) alcuni appunti di mio padre, rav Bruno G. Polacco zl, che a Ferrara esercitò dal 1954 al 1960 (nell’immagine con la moglie, Nella Fortis).
Evidentemente tra una ricerca d’archivio e l’altra affrontò anche le ricette ebraiche estensi e pare quindi che, per la preparazione del caviale, serva “una cassetta di legno grande quanto il quantitativo”, nella quale introdurre le uova “impastandole con olio d’oliva in abbondanza”, aggiungendo poi sale e pepe. Non è dato sapere quale fosse la fonte che indicò tale procedura allargandosi anche alla modalità di cottura della placenta, da fare “a pezzi conditi (meno del caviale)” che si “mettono a cuocere in tegamini di legno”. L’appunto pone anche dei quesiti, circa le dosi del pepe e del sale, il tempo di cottura e le modalità di pulizia della cassetta. Non è un caso che questi appunti siano inseriti tra gli studi sul grande rabbino ferrarese Yitzchaq Lampronti e i suoi discepoli, effettuati da mio padre e ultimati in “versione definitiva” dattiloscritta che spero un giorno di poter rendere fruibile a quanti interessati.
La questione, infatti, come ci ricorda lo stesso sito del museo, venne dibattuta dal grande talmudista autore del “Pachad Yitzchaq” e dai rabbini estensi del suo tempo: “Il problema è che lo storione ha le pinne come prescrive il Levitico, ma le scaglie sono ossee e assomigliano quindi più a placche, per di più non semplici da togliere, che a squame di semplice rimozione come indica la Legge. Lampronti si confronta con rabbini più anziani e stabilisce che a Ferrara non è vietato il consumo del copese, cioè lo storione copice, una delle varietà allora diffuse nel Po”. Da un punto di normativa halachica il tema è stato affrontato da rav Gianfranco Di Segni nel suo testo “Il problema dello storione secondo Rabbi Yitzchaq Lampronti nella Ferrara del ‘700” (rivista Zakhor, 2000) mentre, mezzo secolo dopo gli appunti di mio padre, nel preparare il libro “La signora del caviale” (Firenze, Cult Editore), ci dice ancora il sito del Meis, “Michele Marziani scopre che il notaio e gastronomo ferrarese Roberto Brighenti ha ritrovato la ricetta del caviale della Nuta presso la Comunità ebraica di New York e alla sua morte l’ha tramandata alla sua cuoca Giuseppina Bottoni”. Riferendosi così alla mitica Benvenuta Ascoli che in via Mazzini aveva uno storico negozio di gastronomia casher.
Ovvero, quando da una ricetta si torna indietro nella storia.
Gadi Polacco, Italia Ebraica gennaio 2018
(29 dicembre 2017)