Riflessioni su una festa altrui
Domenica scorsa (24 dicembre) tutto era aperto: supermarket, negozi, pasticcerie, tutti pieni di gente che si affrettava a comprare gli ultimi regali. Il traffico era quello di un giorno feriale, di quelli trafficati delle settimane precedenti. Natale aveva completamente cancellato la domenica. La sacralità della festa che cade una volta all’anno aveva annullato il riposo settimanale. Certo, si potrebbe (e si dovrebbe) riflettere sulla crisi economica di questi anni e sull’erosione progressiva dei diritti dei lavoratori, ma se la domenica fosse davvero sentita da tutti come sacra i negozi resterebbero comunque vuoti o semivuoti. In realtà nella psicologia comune, anche quando non c’è una reale necessità di far prevalere una festa sull’altra, l’eccezione tende a schiacciare la regola, la novità della festa attesa per mesi tende a prevalere sulla routine della festa che arriva puntualmente ogni sette giorni.
Mai come domenica scorsa ho capito quanto sia essenziale il principio per cui lo Shabbat è più importante di (quasi) ogni altra festività. Anche noi attendiamo con ansia Pesach o Rosh Ha-Shanà, anche noi ci prepariamo per mesi (soprattutto a Pesach), organizziamo cene ragionando per settimane sul menu, invitiamo e siamo invitati, arrivano parenti da lontano, incontriamo persone che non vedevamo da tanto tempo. Anche nelle nostre teste queste feste occupano forse più spazio dello Shabbat, ma non c’è niente da fare: lo Shabbat arriva comunque e quando arriva dobbiamo fermare i nostri preparativi; contro il nostro istinto che ci spingerebbe a far festa poche volte all’anno siamo costretti a far festa ogni sette giorni. Inutile dire quanto la regola sia più saggia del nostro istinto e quanto lo Shabbat ci protegga da noi stessi.
Capisco che è molto scorretto discutere su come le persone di altre religioni osservano le proprie feste. Quando gli altri lo fanno con noi giustamente ci dà fastidio. E in effetti è probabile che le cose viste da fuori si percepiscano diversamente da come sono: magari quella che ho interpretato come agitazione di persone che correvano di qua e di là era vissuta in realtà come una grande gioia che non toglieva nulla alla sacralità della domenica. Può darsi. A mia parziale scusante posso anche aggiungere che è davvero difficile evitare di ragionare sul Natale perché ci viene imposto a forza, che ci piaccia o no: alberi, festoni, luci colorate, auguri. Hanno cercato di farla passare come festività laica, e in gran parte ci sono riusciti. Ora si lamentano del fatto che si sia perso il significato religioso. Hanno ragione, ma si decidano: o deve essere la festa di tutti, e allora non può che essere una festa laica di luci colorate e regali, o è una festa cristiana, e allora smettano di cercare di imporla al mondo non cristiano. Non parlo del papa, che giustamente fa il suo mestiere; i telegiornali erano pieni di servizi scandalizzati sui cinesi che festeggiano il Natale senza sapere nulla del suo significato. E perché mai persone atee, buddiste o confuciane dovrebbero far festa per la nascita di un bambino ebreo un paio di millenni fa? O sotto sotto permane l’idea che chi non è cristiano sbaglia?
Anna Segre, insegnante
(29 dicembre 2017)