L’ometto dell’anno
Affermare che la storia non si ripeta mai, quanto meno nel suo insieme, non implicare il ritenere che tutti gli elementi del passato siano destinati ad essere consegnati definitivamente al tempo trascorso. Se così invece fosse, non dovremmo confrontarci con il ritorno di una «tentazione totalitaria» (il copyright è di Jean-François Revel, anche se lui ne parlava in un contesto storico un po’ diverso dal frangente attuale), che si accompagna al mutamento che stiamo attraversando, così come con l’attrazione per ciò che sembra essere autorevole solo perché è autoritario. Se nel secondo caso l’atteggiamento mentale in questione deriva perlopiù da una deficienza di comprensione, che si fa ripetuta ottusità e rifiuto a qualsivoglia riscontro critico, nel primo, invece, le cose sono un po’ più complesse. Poiché entra in gioco una perversa dinamica, in virtù della quale al riscontro della fragilità delle istituzioni democratiche si accompagna l’attrazione dichiarata per la loro negazione. Ad esse, infatti, si prediligono i sistemi (evidentemente non solo di matrice politica ma anche sociale e culturale) basati su una tanto fittizia quanto seducente unitarietà. Non più tutti per uno così come uno per tutti: semmai «tutti in uno». E non di certo perché “tutti” eguali – nei diritti e nelle opportunità – bensì in quanto uniformi, ovvero atomi aggregati ad un’unica entità, che si chiami Stato, nazione, partito, classe, stirpe, comunità ma anche religione o cos’altro (a conti fatti, le differenze di risultato non sono poi così rilevanti: sempre di sfracelli si sta parlando). L’affermare che il ritorno del fascismo storico non sia alle porte, cosa di cui siamo convinti, in nessun modo libera dall’affanno con il quale assistiamo alle derive in corso, e non solo tra gruppuscoli assortiti, più o meno veraci depositari del «fascismo 2:0» (oppure oltre) così come del «terzo millennio». È infatti il clima politico in generale a dare di che riflettere. A quello si volge lo sguardo con preoccupazione. Senza esercitarci in facili, immediate e gratuite analogie, che sono comunque cose diverse dalle legittime comparazioni, basti pensare che la crisi del vecchio ordinamento mediorientale ha offerto, in almeno una trentina d’anni di sua angosciante evoluzione, una serie di velenose “soluzioni”, quasi tutte basate non sulla consensualità e sull’«esportazione della democrazia» (e il suo consolidamento), bensì sulla caduta dalla padella nella brace. Daesh è solo l’ultimo protagonista di questa discesa agli inferi. Islamofascismo, senza tanti giri di parole (anche se la definizione può fare storcere il naso a certuni). Il riferimento al Mediterraneo meridionale e orientale non è peraltro casuale né, tantomeno, forzato. Poiché, pur nella diversità della condizione di quei popoli rispetto alla nostra, c’è comunque come un sorta di effetto di rispecchiamento. Le democrazie liberali, di matrice sociale (e non socialista!), sono infatti in chiaro affanno nel nostro Continente. Non reggono al peso delle trasformazioni, soprattutto di quelle economiche, ma di riflesso anche sociali e demografiche, che si riproducono da sé, senza implicare o richiamare alcun riscontro consensuale. Ricadendo però sulle popolazioni nei loro molteplici effetti. Alla crisi della capacità di gestione, governo e programmazione del costituzionalismo che, dal secondo dopoguerra in poi, si è dipanato come l’asse di evoluzione politica ed istituzionale dell’Europa occidentale, si sostituiscono i semplicismi delle false risposte autoritarie. Se ne hanno crescenti manifestazioni, e non solo in quei paesi dove già in origine gli ordinamenti comuni erano più fragili, come nel caso delle nazioni dell’Est europeo, uscite dall’esperienza del «socialismo reale» solo dal 1989 in poi. A chiusura di un anno civile non facile ma neanche poi così pessimo (ed in prossimità di una campagna elettorale che si rivela già da subito assortita e corroborata da contumelie, improperi e inverosimiglianze, a parziale e incerta copertura dell’assenza di proposte e, soprattutto, programmi), risulta quindi ben poco gradevole che una testata giornalistica nazionale, con un richiamo calcolatamente provocatorio, abbia offerto il peggio di sé associando il titolo di «uomo dell’anno» a Benito Mussolini. Poiché dietro questa abile disinvoltura – che finge di volere giocare sul gusto del paradosso quando invece cerca il consenso sul merito delle proprie provocazioni – c’è invece il segno di un desiderio che va manifestandosi in maniera sempre più aperta, ripetuta e quindi rivendicata: quello di resuscitare gli spettri del passato, presentandoli come le gloriose anticipazioni dei tempi a venire. Il tutto condito da un tono sgradevole, sospeso tra la fittizia scanzonatura e l’inconfessabile ammirazione. Quasi a volere sostenere che alla crisi del liberalismo sociale si deve rispondere non con una generale riformulazione delle prassi democratiche, affrontando la sfida complessa ma inevitabile che il presente ci consegna, bensì con la loro cancellazione, cullandosi nel sogno (che si fa presto incubo) delle scorciatoie. La «banalità» di certa comunicazione non è registro della sua presunta superficialità. Semmai indica quanto profondo sia il retaggio del passato che non può passare, al punto che a certuni – evidentemente non pochi – pare quasi essere la prospettiva di un comune futuro. Chi non dovesse avvedersene, è destinato a pagare un pegno molto salato.
Claudio Vercelli
(31 dicembre 2017)