Pagine Ebraiche, gennaio 2018
Illuminare le vite degli ultimi
Aperta da qualche settimana al Londra, alla Courtauld Gallery, la mostra dedicata a Chaim Soutine raccoglie per la prima volta una parte consistente delle tele che il grande pittore russo naturalizzato francese ha dedicato a coloro che lavoravano nei grandi alberghi. Intitolata “Soutine’s Portraits: Cooks, Waiters and Bellboys” sarà visitabile sino alla fine di gennaio, ed apre le pagine culturali dell’ultimo numero del giornale dell’ebraismo italiano in distribuzione questi giorni.
Illuminare le vite degli ultimi
Smarrito nelle sale della Somerset House, svolti l’angolo in questi giorni in una delle sale incantate delle collezioni del Courtauld Institute of Art della London University e ti pare di essere capitato nell’atrio di un grande albergo europeo ai primi del Novecento. Camerieri, cuochi, pasticceri, fattorini in uniforme si affollano nei ritratti esposti alle pareti di un paio di sale dove ha luogo una delle più emozionanti esposizioni d’arte di questa stagione. I curatori dell’istituto superiore che forma con orgoglio i direttori di quasi tutti i grandi centri internazionali di arti figurative hanno deciso di chiamare a raccolta, per un’occasione forse irripetibile, i ritratti del pittore russo Chaim Soutine, morto a Parigi nel 1943 mentre cercava di sfuggire alla deportazione. Le grandi mostre che gli sono state dedicate in questi ultimi anni ancora non bastano per rendere giustizia a un genio scomodo e senza pari di cui ci è pervenuta purtroppo solo una parte della produzione e che è stato troppo a lungo sottovalutato e dimenticato. La sua passione di cogliere le espressioni dei lavoratori più umili che popolavano il dietro le quinte degli alberghi di lusso era nota. Ma nessuno era riuscito fino ad oggi a raccogliere con tanta dedizione tutti i ritratti reperibili di questo particolare capitolo della produzione di Soutine. Divorato dall’incontrollabile, quasi insana, febbre di studiare il linguaggio espressivo del corpo e del volto, il pittore non si accontenta di ritrarre i propri modelli mentre sono all’opera, nella spontaneità dei propri doveri quotidiani. Ma vuole chiamarli fuori dalla massa dei colleghi, li sottrae al lavoro pressante, li pone su un piedistallo, li mette in posa, li illumina di uno sguardo profondo e li vuole sulla tela mentre vestono le diverse divise professionali.
Si incontra così il Garçon d’étage in nero con le mani spavaldamente nelle tasche, si fa la conoscenza del Maitre d’Hotel e lo stesso personaggio dai capelli rossi mantiene la sua posa imperiosa, resta vestito della sua divisa, ma assume in quattro diversi ritratti per la prima volta messi fianco a fianco ruoli diversi, percorrendo alcuni scalini in salita o in discesa della grande gerarchia che forma il meccanismo di un grande albergo. E il Valet de chambre ritorna in due diverse divise, la rossa e la nera per ricordarci che non sarà un cambio di casacca a modificare lo sguardo smarrito e l’intreccio imbarazzato delle dita di un adolescente. I riferimenti possibili sono innumerevoli e affascinanti. Solo per citarne alcuni, il postino di Van Gogh. L’uomo con la pipa di Cezanne. Il contadinello di Modigliani (e proprio l’artista livornese, che di Soutine fu forse il migliore amico, risponde al richiamo dall’altra riva del Tamigi, dove negli spazi della Tate Modern si svolge un memorabile omaggio al suo lavoro). I feroci ritratti fotografici di August Sander e in particolare quello del pasticcere. Gli alberghi di Joseph Roth e Stefan Zweig come metafora della società e del mondo. Ma Soutine aggiunge qualcosa che è solo suo, che stacca la sua ricerca da quella di chiunque altro. La scomposizione degli assi e il sovvertimento delle simmetrie generano quel processo di esplosione della figura che proprio attraverso l’apparente incoerenza dei tratti possono recuperare la loro espressività più profonda. Il segno del volto si scombina solo per ripresentarsi più vero e più umano. Le enormi orecchie del pasticcere adolescente finiscono per denunciare una divisa troppo grande per il suo esile corpo e la sofferenza del duro lavoro che toccava ai giovanissimi proletari. E rivolgendo il suo sguardo profondamente umano agli ultimi di una gerarchia, agli oppressi di un’impresa più grande di loro, molti di loro immigrati, profughi, perseguitati, esuli, orfani, Soutine denuncia le ferite di una società in fondo non tanto distante da quella in cui anche noi dobbiamo abitare. Restituisce la dignità del cuore che nessuna divisa potrà mai mettere a tacere.
Guido Vitale da Pagine Ebraiche, gennaio 2017
Leggere l’arte nel suo contesto sociale
“A un primo sguardo il piccolo pasticcere dal fazzoletto rosso – così si intitola uno dei ritratti più famosi – potrebbe essere scambiato per un clown, un marinaio, oppure persino per un prete. Una sensazione che resta anche dopo aver realizzato che si tratta di un cuoco. È in un certo senso la messa in scena di una commedia sicuramente una sorta di commedia, di una storia tragicomica, nel ritratto, tragicommedia – nella foto, una scena di desolazione vestita bene che riecheggia gli archetipi del circo e della Commedia dell’arte.”
Il catalogo di una mostra può essere la porta d’accesso a un mondo in cui i quadri assumono tutto un altro significato, e da opere d’arte si trasformano in azioni politiche. Leggere i saggi contenuti in Soutine’s Portraits, pubblicato dalla Paul Holberton Publishing House è illuminante. Scoprire il mondo di coloro che lavoravano nei grandi alberghi con il saggio di Karen Serres, che ne contestualizza l’impegno, o grazie all’analisi di Barnaby Wright, l’altro curatori della mostra, o grazie al testo di Merlin James significa cogliere il senso profondo di una mostra che va ben al di là dell’esposizione di opere d’arte.
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da Pagine Ebraiche, gennaio 2018
(31 gennaio 2017)