Pagine Ebraiche gennaio 2018
I bambini che vennero da Teheran
Il Primo settembre 1939 la Germania nazista invadeva la Polonia e centinaia di migliaia di ebrei polacchi fuggirono attraverso il confine orientale verso l’Unione Sovietica. Tra di loro, quelli che diventeranno noti come I bambini di Teheran: un migliaio di giovani ebrei, per lo più orfani, che si spostò verso oriente, passando da orfanotrofi, centri di accoglienza, campi di lavoro dell’ex Unione Sovietica per arrivare fino all’Iran e poi raggiungere quasi miracolosamente la Palestina mandataria nel 1943. Una storia poco conosciuta in Italia e portata meritoriamente all’attenzione del pubblico italiano dalla giornalista di origine iraniane Farian Sabahi, autrice di una video installazione di circa trenta minuti dedicata appunto ai Bambini di Teheran: attraverso la voce di quattro testimoni diretti di questa storia, incontrati in Israele, Sabahi restituisce uno spaccato di una vicenda allo stesso tempo dolorosa e amara ma anche piena di speranza. A unire le vicende personali dei quattro ex bambini di Teheran, consapevoli di essere scampati alla Shoah e della fortuna di aver ritrovato le famiglie in Israele, è la voce fuori campo di un quattordicenne, che a ogni tappa di questo lungo e tortuoso viaggio, dalla Siberia, all’Uzbekistan fino all’Iran, dipinge il contesto storico in cui si trova.
Ma i quattro assoluti protagonisti del lavoro di Sabahi – totalmente autoprodotto – sono: Elimelech Kanner, nato nel 1929 a Strzyow, rav Iosef Gliksberg nato nel 1933 a Ruzan, Lewy Yizhak nato nel 1928 a Oświęcim e Chezi Dau-Gleicher, nato nel 1932 a Gorlice. I loro ricordi emozionano e al tempo stesso fotografano in maniera chiara e puntuale le dinamiche del tempo. Un esempio, l’arrivo in Uzbekistan: “A Samarcanda era molto dura. Eravamo in un grande stanzone senza letti, senza acqua. Dormivamo per terra. Per mangiare un tozzo di pane dovevamo metterci in coda dalla notte. E poi quando finalmente veniva il mio turno, il pane era finito e mi spingevano via e tornavo a casa a mani vuote” racconta Lewy Yizhak. Per Chezi Dau-Gleicher l’Uzbekistan fu il luogo dove si separò dai genitori, entrambi ammalatisi a causa delle condizioni igieniche pessime e fu mandato in orfanotrofio gestito da un prete polacco. “I polacchi in genere non erano molto gentili con noi ebrei ma di lui ho un ricordo positivo” racconta. In quegli anni era nato un intero sistema di aiuto-soccorso polacco, legato al cosiddetto “Esercito Anders”, chiamato così dal suo comandante, il generale Wladyslaw Anders: un esercito di ex prigionieri polacchi creato sul territorio sovietico che arrivò fino in Iran, occupato da russi e inglesi. Qui arrivarono anche i mille bambini ebrei, raccolti e accuditi nelle strutture collocate a Teheran e sostenute dalle comunità ebraiche in loco. I bambini furono sistemati in tende a Dustan Tappeh, una ex caserma militare dell’Aeronautica iraniana appena fuori Teheran, in quella che divenne nota come la “Casa di Teheran per i bambini ebrei”. Grazie a un accordo con gli inglesi, i bambini riuscirono poi a partire dall’Iran alla volta della Palestina mandataria: dove alcuni di loro ritrovarono finita la guerra i propri famigliari. “Ci siamo incontrati di nuovo con le mie due sorelle, papà e mamma. Quando i miei genitori sono arrivati in Israele, eravamo noi i più forti”, il vero sostegno, racconta rav Gliksberg che ricorda come il padre sin da piccolo gli parlasse di Eretz Israel, della Terra di Israele dove un giorno sarebbero andati a vivere. “Noi non avevamo la Shoah dentro. – racconta Lewy Yizhak, ricordando l’arrivo nel futuro Stato ebraico – Non eravamo sotto i nazisti. Il fatto che ci abbiano mandato in Siberia è stato un bene, ci siamo salvati così. Sapevamo poco della Shoah ma avevamo capito che era una fortuna essere stati mandati via” dalla Polonia. Una fortuna tragica, ci ricorda Sabahi, attraverso i quattro testimoni e attraverso la sua installazione che sarà esposta per la prima volta il 26 gennaio al Mao di Torino. Accompagnata dalle note di Elegy for the Arctic di Ludovico Einaudi (brano scelto dall’autrice del progetto assieme al compositore torinese) e dalle lettere ebraiche dell’artista torinese-israeliano Gabriele Levy che vanno a comporre le parole Yaldei Teheran (i bambini di Teheran), il progetto di Sabahi vuole essere anche un ponte con il presente e con la complessa storia delle migrazioni attuali, le politiche di accoglienza di allora e di oggi. E l’attualità della storia dei Bambini di Teheran è ben sintetizzata dalle parole del poeta e intellettuale israeliano Nathan Alterman, in un’opera dedicata alla vicenda: “Anche dopo molti anni, a un’età di tutto rispetto, / anche dopo che il tempo avrà mutato il loro aspetto, / adornandoli di calvizie e barba canuta, / li chiameremo sempre “I bambini di Teheran”. / Si porteranno l’appellativo di Bambini fino alla vecchiaia / come un suono estraneo e strano. Ma il cielo è testimone / che anni addietro, nel tempo dell’infanzia, / il termine Bambini era per loro ancor più estraneo /Perché nell’anziano a volte dimora un fanciullo, / ma “I bambini di Teheran” è un titolo che cela / il ricordo di un tempo cruento, persecutore e devastatore, / in cui ogni bambino lottava per la sua vita come un vecchio.” (traduzione di Sarah Kaminski).
Quattro voci, un racconto unico
“Un lavoro con una grande collaborazione di ragazzi e fatto per i ragazzi”. Così Farian Sabahi, giornalista ed esperta di tematiche mediorientali, racconta il suo lavoro sui Bambini di Teheran: una video installazione in cui si porta all’attenzione del pubblico italiano la vicenda di un migliaio di bambini ebrei polacchi che, costretti ad abbandonare le proprie case a causa dell’invasione nazista delle Polonia, si sposteranno per migliaia di chilometri – dalla Siberia fino all’Iran – per poi arrivare fino in Eretz Israel. “Una vicenda già molto raccontata ma di cui da noi si sa poco e che io ho scoperto nel 2008 quando ero in Israele per girare per la Rai Che ne facciamo di Teheran? (reportage su gli ebrei persiani in Israele e sul clima politico molto teso tra i due paesi a causa della presidenza di Ahmadinejad) – racconta Sabahi a Pagine Ebraiche – Ho cominciato così a fare le prime interviste e poi sono tornata nuovamente nel 2010, filmando le quattro testimonianze di Elimelech Kanner, del rabbino Iosef Gliksberg, di Lewy Yizhak e Chezi Dau-Gleicher”. Raccolto il materiale per un po’ di tempo il progetto è rimasto in stand by, fino alla recente decisione di rimetterlo in piedi, tutto autonomamente. “Ho scelto di autoprodurre l’iniziativa per riuscire a portarla a termine e ho trovato la collaborazione di diversi giovani (come le voci narranti, una del figlio di Sabahi e l’altra di un suo amico di origine polacca) pensando che in fondo questo lavoro è rivolto a loro e volevo che ne fossero anche protagonisti”. Un’installazione che sarà protagonista al Mao di Torino il 26 gennaio (con interventi di Sarah Kaminski, docente di ebraico dell’Università di Torino, la slavista Krystyna Jaworska e il giornalista Alberto Negri), per poi toccare altre città italiane, con al centro il tema dell’accoglienza. “Una tematica molto attuale e che in Bambini di Teheran è sviluppata attraverso le storie complicate dei quattro protagonisti”. E il visitatore è chiamato a far parte dell’opera: come avviene d’abitudine nelle case, prima di entrare nella sala il visitatore è invitato a togliersi le scarpe e accomodarsi tra i tappeti persiani. Gesto che allude al fatto che “quando si è ospiti, è opportuno rispettare le tradizioni, gli usi e i costumi locali”. “Un messaggio che – osserva Sabahi – “va letto anche in chiave contemporanea”.
Daniel Reichel, Pagine Ebraiche gennaio 2018