Aharon Appelfeld (1932 – 2018)
“L’arte è essenzialmente testimonianza. Testimonianza umana, importante quanto quella più scientifica della storiografia”. In un colloquio torinese con Manuel Disegni, il grande scrittore israeliano Aharon Appelfeld spiegava così il ruolo avuto nella sua vita dalla letteratura, intesa appunto come arte della testimonianza. Nel suo caso, soprattutto testimonianza dell’orrore della Shoah, che nelle sue innumerevoli opere (45 opere) Appelfeld – scomparso ieri all’età di 85 anni – seppe raccontare con lucida e disarmante innocenza. “Non sono capace di immaginare un vero scrittore che non tratti di se stesso e della sua vita”, spiegò nel 2009 a Disegni, riassumendo in poche parole la propria identità letteraria.
Considerato uno dei maggiori scrittori israeliani, Appelfeld nacque nel 1932 nei pressi di Czernowitz, nella Bucovina del nord, allora Romania oggi Ucraina. I genitori erano ebrei secolari, che guardavano a se stessi con una visione cosmopolita. I suoi nonni invece – come raccontò lui stesso – erano ebrei osservanti, contadini che costruirono una sinagoga sui i loro terreni. La sua vita cambiò nel 1941 quando l’esercito rumeno, alleato dei nazisti, riconquistò la sua cittadina, Jadova, dal controllo sovietico. Sua madre e sua nonna furono assassinate. Appelfeld invece riuscì a scappare con il padre ma dopo poco entrambi furono catturati e deportati in un lager in Transnistria, dove furono separati. A nove anni, si trovò da solo ma riuscì ad avere la forza di fuggire di nuovo, trascorrendo due anni a nascondersi nella foresta, svolgendo – come raccontò ad Alain Elkann in un’intervista pubblicata dal Paris Review – i più strani lavori per un gruppo di prostitute e di ladre. Quando l’esercito sovietico avanzò nuovamente, nel 1944, si unì all’Armata Rossa, lavorando nelle cucine, e percorrendo la sua personale strada dall’Italia e dalla Jugoslavia, verso il futuro stato d’Israele dove arrivò nel 1946.
Nei suoi libri raccontò l’esperienza di essere un bambino solo al mondo, del tempo passato a raccogliere frutti da mangiare, a trovare riparo per dormire, a lavorare per criminali ucraini che non sapevano fosse ebreo e comunque lo trattavano come uno schiavo, pur permettendogli di sopravvivere. Più tardi incontrò una prostituta che gli diede riparo per cinque mesi e che più tardi divenne un personaggio in Blooms of Darkness. Nel 1960 scoprì che anche suo padre era sopravvissuto alla Shoah, ricongiungendosi a lui dopo anni di silenzio. In Israele, tra i 13 e 14 anni Appelfeld iniziò ad imparare la sua nuova lingua madre, l’ebraico. “Fu faticoso”, confessò in in diverse interviste ma gradualmente il ragazzino che a lungo fu costretto al silenzio dal mondo attorno a lui, riuscì a padroneggiare la nuova lingua in cui inizierà a scrivere tutte le sue opere, tra cui ricordiamo Badenheim 1939; Storia di una vita; Paesaggio con bambina; Un’intera vita e L’amore, d’improvviso. Nei suoi romanzi affrontò i temi legati alla Shoah, alla guerra e alle condizioni dell’Europa dopo il secondo conflitto mondiale. “Il suo soggetto letterario non è però l’Olocausto, né la persecuzione ebraica. – dirà di lui lo scrittore Philip Roth – Né, a mio avviso, ciò che scrive è semplicemente narrativa ebraica o israeliana. Né, essendo cittadino ebreo di uno Stato ebraico composto in gran parte da immigrati, la sua è una narrativa dell’esilio. E, nonostante l’ambientazione europea di molti dei suoi romanzi e gli echi di Kafka, questi libri scritti in lingua ebraica non sono certo narrativa europea. Infatti, tutto ciò che Appelfeld non è si aggiunge a quello che è, ovvero uno scrittore disarticolato, uno scrittore deportato, uno scrittore espropriato e sradicato. Appelfeld è uno scrittore sfollato di una narrativa sfollata, che ha fatto dello sfollamento e del disorientamento un soggetto unico nel suo genere. La sua sensibilità – segnata quasi alla nascita dai vagabondaggi solitari di un piccolo ragazzino borghese attraverso un’inquietante nulla – sembra aver generato spontaneamente uno stile di specificità parsimoniosa, di progressione fuori dal tempo e di spinte narrative contrastanti, cioè una sterminata prosa di realizzazione della mentalità profuga. Unica come il soggetto, è una voce che nasce in una coscienza ferita, che si trova da qualche parte tra amnesia e memoria, e che colloca la finzione che narra a metà strada tra parabola e storia”.
d.r.