diversità…

Ieri Anna Foa ha rivolto la sua attenzione sulla originale rappresentazione di Gesù nelle vesti di una ragazzina nigeriana, e sulla reazione scandalizzata di Forza Nuova. In questi stessi giorni, io stavo invece concentrando la mia attenzione su un altro bambino, Moshé, che nella tradizione ebraica è il paradigma di tutti i bambini perseguitati e che viene salvato grazie a una donna coraggiosa che lo adotta, la figlia del Faraone, e grazie a un Giusto delle Nazioni, Ytrò, ex sacerdote di Midiàn, che diventerà suo suocero.
Moshe, cresciuto senza una famiglia, decide di stabilirsi a Midiàn dando così prova di riconoscenza verso Ytrò e le sue figlie che lo hanno accolto con grande affetto e calore. Sembra essersi insediato e aver iniziato una nuova esistenza ma, quando sceglie il nome per suo primo figlio gli impone il nome di Ghershòm che significa “straniero là” e il testo aggiunge “… perché straniero ero in una terra straniera …” (Shemòt, 18;3), sottolineando il concetto di estraneità che prova in Midiàn. Ma dove è straniero Moshè? In Midiàn rispetto all’Egitto o in Egitto rispetto alle sue origini ebraiche? Moshè forse è straniero a se stesso, e il nome che mette al figlio è segno che bisogna sentirsi sempre e dovunque stranieri per capire il cuore e la condizione esistenziale di chi è diverso.
È proprio questa sensazione di estraneità che provo in Italia in questi giorni, dove assistiamo sempre più spesso a esternazioni da parte di varie forze politiche e culturali, in modo trasversale, di grave insofferenza nei confronti della nostra diversità.

Rav Roberto Della Rocca, rabbino

(9 gennaio 2018)