STORIA Shoah e informazione. Il coraggio della Svizzera
Silvana Calvo / L’INFORMAZIONE RIFIUTATA / Zamorani
Vincitrice nel 2014 del Premio Vittorio Foa, assegnatole a Formia per A un passo dalla salvezza, edito da Zamorani nel 2010, la storica Silvana Calvo si occupa da molti anni di razzismo e antisemitismo nel Novecento, e in particolare di Shoah e della situazione degli ebrei in Svizzera. In L’informazione rifiutata. La Svizzera dal 1938 al 1945 di fronte al nazismo e alle notizie del genocidio degli ebrei, appena pubblicato da Zamorani, racconta come l’informazione sia stata gestita in maniere differenti. Con intransigente reticenza, o facendo filtrare il massimo possibile di notizie nonostante le continue raccomandazioni del governo e la censura, in un quadro in continuo mutamento a seconda di come evolveva il conflitto e dei rapporti di forza tra i diversi schieramenti nella Confederazione, ossia tra chi pensava che si dovesse scendere a patti con i tedeschi e chi invece metteva al primo posto la difesa della sovranità nazionale.
Nell’estate del 1942 su molti giornali svizzeri si poteva già leggere che il numero degli ebrei uccisi sino a quel momento dai nazisti aveva raggiunto il milione. In dicembre la Dichiarazione congiunta anglo-russo-americana parlava chiaramente di sterminio, e accusava i tedeschi di aver trasformato la Polonia in un mattatoio. Silvana Calvo, nel suo L’informazione rifiutata, appena pubblicato dall’editore Zamorani, racconta una storia importante, e appassionante molto più di quanto ci si potrebbe aspettare affrontando un corposo saggio storico dedicato a “La Svizzera dal 1938 al 1945 di fronte al nazismo e alle notizie del genocidio degli e b r e i ” , c o m e recita il sottotitolo. Le notizie circolavano ampiamente, in tempo reale e malgrado le limitazioni alla libertà di stampa alcune testate – per esempio “Libera Stampa”, di Lugano – seppero dare un’informazione puntuale che presentava i fatti e contrastava la tendenza dei lettori a non voler vedere quanto avevano sotto gli occhi. In risposta alle continue recriminazioni che giungevano da Berlino contro la supposta ostilità della stampa svizzera nei confronti di Hitler e del nazismo il Consiglio Federale già nel 1934 aveva emesso un primo decreto che riduceva la libertà di stampa, e recitava: “Gli organi di stampa che per gravi infrazioni mettono in pericolo le relazioni della Svizzera con altri paesi subiranno un richiamo. In caso di non adeguamento verrà comminata una sospensione temporanea”. Una questione delicata: il governo era preoccupato di mantenere buone relazioni con il paese che era il principale partner commerciale della Svizzera, ma era anche ben consapevole come la libertà di stampa fosse un valore identitario molto sentito. La sua affermazione era stata travagliata, ed era diventato uno dei temi cardine di tante battaglie politiche, sin dagli anni Trenta dell’Ottocento. Principio all’inizio controverso, a partire dai primi decenni del Novecento la libertà di stampa e di pensiero divennero un’idea largamente condivisa, percepita come un valore inderogabile della Confederazione. E, indiscutibilmente, era anche un importantissimo fattore di coesione che costituiva una garanzia essenziale per tutte le componenti di quel complesso aggregato che chiamiamo Svizzera. Il decreto del 1934 non ebbe mai forza di legge, sulle informazioni non era posta alcuna limitazione: si chiedeva che le fonti fossero attendibili, e i giornali si impegnarono sempre più a citare l’origine delle notizie. La stampa svizzera, dunque, scriveva, e con passione. Venne richiesto all’informazione, per il bene del paese di “imporsi una disciplina volontaria nell’espressione dei suoi pensieri”, ma era chiaro ed esplicito che la neutralità dello Stato non andava confusa con la neutralità degli individui. Come scrive Fabio Levi nella prefazione al volume, che i giornali svizzeri negli anni della seconda guerra mondiale avessero pubblicato notizie sulle persecuzioni e sullo sterminio degli ebrei in Europa era noto, ma non era mai stato documentato con altrettanta ricchezza il flusso ininterrotto di informazioni apparse via via, molto spesso quasi in tempo reale, sui più diversi aspetti del genocidio, sin dai suoi prodromi. “La precisione dei numeri, la varietà dei luoghi considerati e la ricchezza dei particolari contenuti nelle innumerevoli citazioni proposte nelle pagine che seguono suscitano un’impressione molto forte, soprattutto se misurate sulla pretesa inconsapevolezza e sulla indiscutibile passività manifestate dalle autorità dei paesi schierati contro il nazismo per tutto il periodo della guerra”. Il volume indaga in profondità la relazione fra informazione e comportamenti della politica e della società svizzere, nel contesto di uno Stato neutrale che subiva, da parte della Germania nazista, una pressione enorme di fonte alla quale fu comunque capace di mantenere al proprio interno la pluralità sia delle voci che dei soggetti attivi nella vita pubblica. Impossibile non pensare, a ogni pagina, a come i lettori dell’epoca non vollero capire quello che stava succedendo, inevitabile chiedersi perché fosse così difficile vedere. Il governo della Confederazione esercitava le sue funzioni di controllo sull’informazione in due modi contraddittori anche se complementari, l’Agenzia Telegrafica Svizzera preparava per la radio notiziari quotidiani che si preoccupavano più che altro di non irritare le potenze in conflitto e viceversa, nel rispetto di quanto restava in Svizzera di una lunga e gloriosa tradizione di libertà di stampa, la stessa Agenzia forniva al mondo complesso e molto articolato dei giornali di carta un’informazione ben più ricca, che lasciava un certo spazio anche a notizie scomode come quelle sul destino degli ebrei. Il libro, basato su documentazione ricca e molto spesso inedita, racconta anche le vicende di alcuni personaggi intelligenti e coraggiosi capaci di aprire nuovi canali di comunicazione con il pubblico attraverso i quali far filtrare le notizie che provenivano da tutta Europa. E l’ultima parte del volume è dedicata al quotidiano ticinese di impronta socialista “Libera Stampa”, che seppe offrire un’informazione costante, puntuale e coinvolgente sia sullo sterminio che sull’arrivo dei profughi in fuga dalle persecuzioni. Non sapere – nel nostro caso ignorare la realtà degli orrori perpetrati dai nazisti e da chi offriva loro la propria collaborazione – era una condizione che rendeva più facile l’assoggettamento al potere, la passività e la compromissione morale. Essere informati, conoscere anche le vicende più terribili e dolorose, era un presupposto necessario, anche se non sufficiente, per un atteggiamento o un comportamento più consapevole e dignitoso. Infine voler sapere, e volere che gli altri sapessero, costituiva un primo passo decisivo sulla strada della solidarietà con le vittime come pure della possibilità per ognuno di esercitare il diritto alla propria autodifesa. Solo un’informazione mirata, capace di contestualizzare le notizie, di aiutare il lettore a interpretarle e ad immedesimarvisi può lasciare una traccia effettiva nella coscienza del pubblico cui è rivolta.
Ada Treves, Pagine Ebraiche, gennaio 2018