Machshevet Israel – Praga: il golem, Kafka e il concetto ebraico di verità

massimo giulianiUna visita a Praga, a cavallo dei due anni civili, è per me occasione per qualche riflessione filosofica, ebraica e non. Rifletto anzitutto su di un anniversario che l’Europa dovrà quest’anno ben meditare: i quattro secoli esatti dall’incipit della guerra dei Trent’anni – il più violento conflitto di religione (tra cattolici e protestanti), oggi si dice “clash of civilizations” – proprio nella primavera del 1618, emblematicamente fissato con la famosa Defenestrazione di Praga. Tre rappresentanti (cattolici) dell’imperatore vennero fatti volare dalle finestre del castello imperiale, che fu già casa dell’illuminato Rodolfo II: la posta in gioco era la libertà di culto ossia il diritto di professare la propria “verità religiosa”. La verità sul modo di onorare Dio professata dai gesuiti – le cui vestigia nella capitale boema sono ovunque – divergeva dal modo praticato e predicato dagli hussiti, i protestanti fedeli al riformatore-martire Jan Hus. Le armi sciolsero i dilemmi teologici. Non era la prima volta (sarà forse l’ultima?). Nelle pause della visita, ho letto una breve opera di Carlo Levi intitolata “Paura della libertà”, scritto in Francia nel 1939 e pubblicato in Italia da Einaudi nel 1946: “Ogni guerra è un duello di dèi – scriveva un po’ ironicamente e un po’ no il grande intellettuale antifascista torinese – è un giudizio di Dio nei due sensi del termine: ché il Dio è giudice e giudicato… Le guerre seguono e rispecchiano la natura del dio con cui si identificano… Sempre il senso idolatrico dello Stato richiede la guerra, totale e continua… Solo lo stato di libertà è stato di pace: dove è vera pace là è vera libertà, perché gli idoli non vivono senza guerra” (pp.89-90). Che sia la guerra il discrimine tra idolatria e verità?
Riprendo a visitare le sette sinagoghe storiche della città, sette, più il vecchio cimitero ebraico, il più famoso d’Europa, con la tomba del Maharal, il rabbino Jehudà Loew ben Bezalel che fu filosofo, talmudista e qabbalista, associato a Praga e alla leggenda del golem ossia il fantoccio d’argilla che questi avrebbe costruito per difendere il ghetto, costantemente minacciato dai pogroms dei cristiani (antisemitismo come momento di tregua e collaborazione ecumenica tra i duellanti…). Per attivare il golem, il Rav, la cui sapienza intimoriva quasi fosse un mago, scriveva sul fantoccio – o gli inseriva in bocca, dice un’altra versione del mito – la parola ebraica emet, verità appunto. Guardi nei negozi e sulle bancarelle esterne del quartiere ebraico, e trovi ovunque questi piccoli golem di terracotta, fatti in serie, con la parola emet scolpita sul petto. Geniale leggenda ebraica: è la verità – l’amore per la verità – che anima il cuore e che illumina la mente mettendo in moto l’azione. Eppure, all’arrivo dello shabbat, anche la verità cedeva il passo: il Rav disattivava il golem e il ghetto restava senza difesa materiale. Doveva bastare lo shabbat (l’osservanza delle mitzwot) a difendere il popolo di Israele. Quando il Maharal, un venerdi sera, se ne scordò e trascurò di disattivare il suo fantoccio-guardiano, questi da strumento di difesa si trasformò in strumento di distruzione, e la (sua) verità fu usata non più per la vita ma per la morte. Parola radioattiva, emet o verità, che oggi la più parte dei visitatori del quartiere ebraico vede senza capire. Ma la capì perfettamente Franz Kafka, la cui tomba è la meta del turismo còlto nel nuovo cimitero ebraico della città: la verità, cuore del ‘castello’ e incarnazione messianica, resta inaccessibile ai comuni mortali.
Davar acher. Si può leggere il mito capovolgendone il senso. Rav Loew, scrivendo emet sull’argilla da lui forgiata, non attivava o animava un golem, ma ‘golemizzava’ la verità: affidava alla fragilità della materia, della storia e dello spazio ciò che, di sua natura, vorrebbe essere l’essenza dello spirituale, dell’eterno e dell’ultramondano. Consegnava ‘il vero’ a qualcosa/qualcuno che, senza il rispetto della Legge o fuori dallo spirito della Legge, non sa farne uso: non sa interpretarlo né applicarlo. Come non ricordare la parabola kafkiana, inserita nel romanzo “Il processo”, di quell’uomo semplice che attese per una vita dinanzi al portone della Legge (Vor dem Gesetz, in tedesco), per scoprire alla fine che quel portone era destinato solo a lui e a nessun altro? Non è un caso che la berakhà alla notizia di una morte sia: Barukh dayyian emet. La verità, pur scolpita nella nostra fragile e contraddittoria esistenza storica e mondana ossia golemica, non è nelle nostre mani; è nelle nostre mani invece la sua ricerca continua, a partire dalla giustizia e per amore della pace. “Su tre pilastri il mondo si regge: sulla giustizia, sulla verità e sulla pace” (Avot I, 18) e l’ordine dei tre non è casuale.

Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI