Ebrei di Libia e cittadinanza
Gli ebrei fuggiti dalla Libia nel ’48-51 sono oltre trenta mila. Rappresentavano il 90 per cento della comunità ebraica locale. La loro fu una fuga in massa, trasfigurata in un sogno di rinascita. L’esilio divenne esodo e la fuga un sogno di riscatto.
Gli ebrei di Libia hanno idealmente fatto parte dell’Ebraismo italiano per oltre quaranta anni. Come “indigeni”, secondo la logica del discorso fascista e coloniale, che avevano però un rabbino capo italiano nominato in Italia.
Gli ebrei di Libia hanno subito le persecuzioni del fascismo e vissuto le esperienze della deportazione prima che cominciassero dall’Italia dopo l’occupazione tedesca.
Un quarto dell’ebraismo della Cirenaica è perito nel campo di Giado.
Sto parlando di una parte della storia dell’Ebraismo italiano, largamente sconosciuta e occultata, che nel dopoguerra ha conosciuto ulteriori sviluppi con l’arrivo degli ebrei ddi Libia, dopo il terzo pogrom avvenuto nel giugno del 1967, il terzo in ventidue anni.
Gli ebrei di origine libica arrivati negli anni Cinquanta in Israele hanno diritto al riconoscimento della cittadinanza italiana. Ne hanno diritto per motivi storici, culturali, e morali. Ma anche secondo le osservazioni di autorevoli esperti in materia per un motivo giuridico.
Non avendo gli ebrei fuggiti dalla Libia ottenuto la cittadinanza libica, e avendo ottenuto la cittadinanza israeliana per la “Legge del Ritorno” e non per un processo di naturalizzazione, hanno di fatto conservato, come più volte sottolineato dagli avvocati Habib, il loro antico status giuridico.
Per molti ebrei che vivono in Israele tutto questo ha una grande rilevanza simbolica e potrebbe avere una grande ricaduta di politica culturale e sul piano istituzionale. Per l’Italia sarebbe la riscoperta di una grande ricchezza, oltre che un atto dovuto di riparazione simbolica. Contribuirebbe a rafforzare i legami in un’ottica di pace, tra due paesi democratici che si affacciano da sponde opposte sul Mediterraneo.
È forse venuto il momento di parlane e di discuterne.
David Meghnagi, Università Roma Tre