Religione e cultura
Può esistere religione senza cultura? Si può discernere per esempio la religione ebraica dalla cultura correlata o da quelle con le quali essa è venuta in contatto? Suona quasi come qualcosa di illogico, e forse in parte lo è.
Nei giorni scorsi mi sono dedicato alla lettura di “La Santa Ignoranza”, pubblicato nel 2008 e scritto dal sociologo francese Olivier Roy. Roy è un profondo conoscitore dell’Islam e negli ultimi anni è stato più volte ospite su varie testate per analizzare l’integralismo islamico. Ha sempre confutato la tesi dello “scontro di civiltà” insistendo invece sullo scisma contemporaneo tra religione e cultura, visibile soprattutto nella tendenza universalizzante dei nuovi movimenti religiosi, del salafismo e di varie branche del protestantesimo cristiano. Nella società postmoderna, questi fenomeni ponendosi in rottura con la propria cultura d’origine e con le tradizioni locali, verrebbero decontestualizzati per divenire “religioni d’esportazione” appetibili sul mercato, in grado di poter varcare i propri territori e convertire il maggior numero di persone, al di là dell’etnia o dello status sociale. I fondamentalismi religiosi che ne nascono si costruirebbero sempre su una “mitica” purezza delle origini e su una religiosità emotiva, letterale e non contaminata. La secolarizzazione e il neopaganesimo porterebbero le religioni su posizioni più rigide e conservatrici, ma al tempo stesso queste verrebbero formattate comunque sul modello occidentale-cristiano, adottandone i suoi mezzi e linguaggi.
Ma come potremmo intendere una religione deculturizzata? Prendo un’episodio esemplificativo – forse inventato – che potrebbe delineare meglio il tutto: un giorno, in una località indefinita durante il banchetto in occasione del kiddush mi trovai a discorrere con un ragazzo che desiderava percorrere la strada del ghiur e da qualche tempo aveva cominciato a frequentare quella sinagoga, gli raccontai così che la comunità della mia città è sefardita e molti dei suoi membri iniziali erano marrani… egli stesso mi confessò allora senza imbarazzo che non conosceva quei termini, e in qualche modo non era neppure granché interessato ad approfondirli. Per egli l’ebraismo era dunque una religione al pari delle altre, forse più affascinante, esotica, o “spirituale”, ma scissa da una storia e da una cultura propria, come del resto esso era inteso negli ambienti reform del XIX secolo. Per Roy la conversione si colloca al centro della dissociazione fra il religioso e il culturale, e i cosiddetti “born again” evangelici o gli europei “rinati” nell’Islam abbraccerebbero spesso istanze più puriste o intolleranti.
In realtà le parti che Roy dedica all’ebraismo sono scarse, o riguardano appunto gruppi marginali come ibridismi nati con la mondializzazione – vedasi i centri che assimilano la kabbalah con le “filosofie orientali” -, e il mondo riformato che si sarebbe uniformato alla società americana in linea con il progressismo e l’umanesimo. L’ebraismo dovrebbe essere meno propenso al pericolo della deculturazione, poiché fortemente connesso a dei marcatori culturali e alle vicende di un popolo ben caratterizzato, e restio così al proselitismo e a vocazioni universalizzanti – anche i convertiti si sono sempre in qualche modo “acculturati” alla cultura ebraica -. Secondo Roy però anche l’ebraismo subirebbe da tempo un processo di “formattazione” o “standardizzazione”: le singole tradizioni e i particolarismi locali sarebbero in via d’estinzione, a favore di una cultura più omogenea e meno diversificata, se non frazionata in due rami maggioritari ma non più dissimili tra loro, come quella ashkenazita e sefardita o quella diasporica e israeliana. Sovente per il sociologo francese sono gli stati secolari a pretendere una formattazione del religioso, per riconoscere e poter così trattare le religioni sotto un unico livello giuridico, conducendo però le stesse a perdere molti tratti caratteristici o a crearne di nuovi. Da qui il discorso si sposta sulla professionalizzazione dei “ministri del culto”, sull’adozione di uniformi standard e marcatori esterni (come il velo islamico), o sulla rivisitazione di alcune feste religiose.
L’assunto principale di Roy rimane comunque che più una religione si direziona verso una presunta “purezza”, distaccandosi dal proprio contesto, storia o cultura, e più essa sarà incline al fanatismo.
Si tratta di temi complessi e delicati su cui sarebbe interessante riflettere con tutte le riserve o obiezioni possibili.
Francesco Moises Bassano