Il saccheggio del linguaggio
Nel quadro di merito ricostruito negli articoli precedenti si inseriscono ulteriori elementi sui quali riflettere. Alle spalle si hanno almeno tre decenni di spostamento continuo dell’asse della discussione politica verso pensieri, temi e linguaggi che presentano affinità con il sentire espresso dall’area della destra radicale. La quale, a sua volta, è cambiata. È mutata la comunicazione pubblica: cose che trent’anni fa sarebbero state censurate o comunque sottoposte ad un vaglio critico, oggi fanno invece parte di un certo dire comune. Non è una questione di galateo linguistico, semmai è un aspetto della crescente reattività e dell’aggressività nelle relazioni sociali. L’impegno per il controllo dei significati da attribuire alla lingua di senso comune è peraltro una vecchia battaglia fascista. Intervenire sul modo in cui si raccontano le cose induce a controllare i pensieri altrui. Non è un caso, infatti, se alla genesi del movimento fascista, nel 1919, ci sia anche un’azione sistematica di saccheggiamento del lessico socialista, capovolgendone il senso a proprio favore e quindi svuotandone la natura programmatica. Il programma di Sansepolcro dei Fasci italiani di combattimento, licenziato nel marzo del 1919, ne è una evidente riscontro. Il conflitto semantico è quindi uno scontro di merito: non un’esclusiva battaglia di forme bensì una guerra di contenuti, perché l’impossessarsene implica dettarne l’uso abituale, spesso ribaltandoli nel loro opposto o neutralizzandone la carica altrimenti innovativa. Il linguaggio corporativista del Ventennio mussoliniano si adoperava quindi in questa direzione: si presentava come “sociale” per alimentare il suo pervicace antisocialismo; faceva appello all’individuo per privarlo di ogni tutela liberale e democratica; parlava alle moltitudini non per riconoscerne i diritti bensì per mobilitarle verso un orizzonte di uniformazione, dove il consenso veniva prima carpito e poi manipolato. Un altro aspetto delle destre radicali di movimentazione e mobilitazione è quindi il presentarsi, a tutt’oggi, come soggetti “mediani”, ossia capaci di costituire la sintesi di interessi contrapposti. Non si tratta solo del vecchio richiamo interclassista e paternalista. La chiave di questa auto-rappresentazione è infatti il mascherarsi come figure nuove, attraverso il rimando al fatto che l’“autentica politica” si collocherebbe nell’essere «né di destra né di sinistra». Di queste due polarità identitarie se ne dichiara pertanto la decadenza, sostituita da una superiore sintesi, di cui il neofascismo si candida ad esserne esclusiva espressione, nel nome degli interessi della «nazione», della «stirpe», della «comunità» o, più prosaicamente, della «gente». Nella sua visione organicista della società, dove tutto deve coincidere con un centro (che sia lo Stato, il movimento, il popolo ma anche la razza o l’etnia così come la «comunità di popolo»), non c’è spazio per il conflitto tra interessi contrapposti. Anzi, esso è rifiutato, aborrito come una sorta di inquinamento dei «valori superiori», alla cui signoria, indiscutibile e insindacabile, tutti dovrebbero invece piegarsi. I movimenti populisti, o variamente definibili in tale modo, vanno in tale direzione. Non sono organizzazioni necessariamente di matrice fascista o neofascista; tuttavia riprendono un tale tipo di configurazione mentale, prima ancora che politica. La quale, tra l’altro, inibisce il diritto al conflitto. Se il conflitto sociale è l’elemento costitutivo delle democrazie contemporanee, la sua cancellazione dall’agenda politica, ovvero la sua trasposizione sul piano etno-nazionalista, quindi razzista (oggi più che mai presente nella ossessiva riproposizione dello scontro tra autoctoni e migranti), è il fattore su cui si gioca una buona parte della visione organicista presente nella destra radicale europea e segnatamente in quella italiana. In una tale costruzione, infatti, non c’è conflitto sociale; semmai sussiste una contrapposizione etnica, che permette il realizzarsi di un effetto di sostituzione. La qual cosa implica che chi si sente ferito, depauperato, emarginato non se la debba prendere con altri che non siano coloro che si trovano in una posizione ancora più subalterna della sua. Il conflitto etnico, ridotto ai suoi minimi termini, rimanda a un tale ribaltamento. Non si fa la guerra alla povertà bensì ai poveri. Poiché i “poveri” sono gli “altri”, quelli diversi nella loro stessa natura morale e, come tali, pericolosi. A questa riconfigurazione ideologica della società si ricollega quanto Pietro Barcellona definiva, già trent’anni fa, come «individualismo proprietario»: tra i suoi elementi costitutivi entrano a fare parte il tendenziale rifiuto della socialità; la scarsa propensione alla coalizione se non sulla base della mera protesta; quindi, l’unione in gruppo ma solo in forme occasionali, cioè nei momenti del rancore, nelle situazioni di rabbia e non per la costruzione di un progetto condiviso, che invece è l’essenza dell’agire politico in una democrazia. Rancorosità diffusa, ricerca di capri espiatori e delega a figure carismatiche contraddistinguono il processo di spossessamento dello spazio della politica, fenomeno che è oggi al nocciolo delle crisi di mutamento che le società a sviluppo avanzato stanno vivendo. Il discorso pubblico che ne consegue rimanda all’affratellamento nel vincolo di sangue e destino. La lotta contro le migrazioni internazionali si inscrive in questa logica, più profonda di quanto non possa sembrare di primo acchito. Dalla difesa del proprio «territorio», vissuta in chiave quasi tribale, deriva il perimetro della propria identità. È come se si dicesse: si è parte di una comune famigliare che, come tale, non va in alcun modo tradita. La destra radicale aggiunge a ciò: se le odiose élite borghesi hanno abbandonato le comunità locali al loro orizzonte di sofferenza (e di insofferenza) noi ci incarichiamo di raccoglierne la rappresentanza non in quanto agenti del conflitto sociale bensì come elementi di una comunione razziale, ossia etno-nazionale. Anche qui c’è qualcosa che ritorna dell’esperienza del vecchio fascismo storico, quella del regime mussoliniano, laddove esso si incaricava di portare a termine il processo di «nazionalizzazione delle masse» (ovvero di accesso delle classi subalterne nella scena pubblica) in posizione subalterna, carpendone il consenso e manipolandone la coscienza. In odio e disprezzo ad ogni forma di pluralismo, aborrito e quindi indicato come la madre di tutte le disgrazie, si offriva alla società italiana una piattaforma alternativa, basata sul sentirsi parte di una comunità nazionale (poi declinata in «razza») non sulla scorta di un progetto di eguaglianza bensì di uniformità. L’eguaglianza, infatti, presuppone la possibilità di accedere a pari diritti, fruendone quindi dei benefici. Non è un valore astratto ma la via per una redistribuzione della ricchezza socialmente prodotta. L’uniformità, invece, implica che gli individui vengano ridotti a semplice duplicato di un’unica matrice, senza alcuna possibilità di esprimere una qualche soggettività. Il regime si incaricava di incentivare questo secondo modello, destrutturando le propensioni residue al primo. Anche da ciò si desume come l’impalcatura ideologica fascista e, in immediato riflesso, neofascista, non possa essere ricondotta, moralisticamente, alla solo “cattiveria” delle sue leadership, ovvero ai loro meri calcoli di interesse. Semmai si tratta di una complessa riorganizzazione della società, attraverso lo spregiudicato ricorso all’uso politico di tre ingredienti: il risentimento che attraversa le collettività nei momenti in cui una parte delle loro componenti si sentono sottrarre qualcosa che ritengono appartenergli, a prescindere da qualsiasi valutazione di merito; la paura di essere “invasi” e dominati da qualcuno di estraneo; l’odio non tanto per la diversità o l’alterità bensì per il pluralismo e l’alterazione, che la prima e la seconda introdurrebbero nel proprio “giardino di casa”, scompaginando un presunto ordine naturale delle cose, dei rapporti sociali, dei legami interpersonali. Le destre radicali dichiarano che a fronte del disordine sopravveniente, sarà loro compito ristabilire la giusta successione gerarchica, messa in discussione dal “permissivismo” lascivo, dal “buonismo” imbelle, dal “liberalismo” ingannatore. Come tali, si presentano sempre come organizzazione che si incaricano di difendere la “vera natura” degli esseri umani. Ovvero di quelli che hanno diritto ad essere considerati tali. Sul piano della ricerca del monopolio nell’eversione agli ordinamenti democratici, tra le forze del passato e quelle del presente non esiste necessariamente un effetto di sostituzione. Semmai è meglio parlare di sovrapposizione e di concorrenzialità, a volte oppositiva, altre volte compensativa o comunque transitiva. In altre parole: non è vero che una emergenza sostituisca l’altra. È allora bene cercare di capirne qualcosa. Se la scena europea del radicalismo pare oggi dominata dall’angosciante manifestazione del terrorismo islamista, destinato purtroppo ad accompagnare a lungo le trasformazioni delle società a sviluppo avanzato, la presenza del neofascismo e del neonazismo in Europa non si è per nulla arrestata. Ancorché apparentemente contrapposti in alcuni loro capisaldi di fondo, i radicalismi a matrice religiosa e quelli di natura politica trovano infatti alcuni comuni denominatori nel loro agire. Tra di questi, i tentativi di dare corso al reclutamento di simpatizzanti, sostenitori e militanti, attraverso la legittimazione della prevaricazione sistematica, con una proposta d’azione del tipo: “sii tu stesso parte attiva di questo meccanismo” (la militanza identitaria); quindi, la messa in campo di una strategia d’azione basata sulla violenza che, se in molti casi, raccoglie il biasimo, il discredito e quindi il rifiuto della maggioranza della popolazione, tuttavia non ad essa si rivolge bensì a soggetti predeterminati, i quali ne subiscono invece un vero e proprio effetto di fascinazione (anche in ragione proprio del rifiuto dei più); il ricorso ad una persistente e martellante offensiva ideologica, dove gli obiettivi ossessivamente richiamati sono essenzialmente tre: l’enfatizzazione della appartenenza ad un gruppo di “iniziati” e di predestinati, per il fatto stesso di condividere dei convincimenti radicali e irriducibili a qualsiasi mediazione; l’odio di fondo, che si fa concreta avversione fisica, nei confronti della collettività (alternativamente presentata come composta da miscredenti, da apostati, da “nemici”, da inani, imbelli e inetti che “non meritano di continuare a vivere” se non come subalterni); l’avversione sistematica per il liberalismo, inteso come filosofia politica basata sulla centralità dell’individuo nell’esercizio della sua libertà di scelta, così come soprattutto per la democrazia sociale e partecipativa, ridotta a oclocrazia, ossia il governo fatto dalle moltitudini disordinate e degenerate. Il neofascismo sta dentro questo tracciato, al medesimo tempo vecchio e nuovo. A ciò unisce un’irrisolta pulsione di morte, un vitalismo funereo, una passione esasperata per il cadaverico. Ciò parrà essere qualcosa al medesimo tempo di tendenzialmente irrilevante non meno che sgradevolmente inconsistente ma, è bene ricordarlo, dal fascismo storico, tra il 1919 e il 1943, ai neofascismi, dal 1943 in poi, il rimando a questo insieme di fattori è strategico. Riassumendo: il settarismo esasperato; un aristocraticismo dello “spirito” dei cosiddetti “migliori”, che in realtà è la copertura del disprezzo per la dimensione sociale, ossia il rapporto tra eguali; il rifiuto della individualità, altrimenti intesa come centro della vita umana; la passione per ciò che è inanimato, ossia uniforme, nel senso di eternamente identico e, quindi, incapace di esprimere qualcosa di personale, soggettivo, in un parola autentico. Il fascismo, infatti, più che una compiuta teoria politica si presenta storicamente come una visione regressiva sia dell’antropologia dell’uomo (ossia, per così dire, dei suoi caratteri più profondi) sia dei rapporti che egli intrattiene con i suoi simili. Bisogna quindi prendere coscienza che la sua concezione reazionaria delle relazioni umane, persistente da quanto la destra radicale vide la luce come risposta alla Rivoluzione francese del 1789, così come il suo violento ritorno sulla scena in tempi più recenti, a partire da alcuni paesi dell’Est che i conti con il loro passato li stanno facendo alla rovescia, ne denunciano la stringente attualità. Per coglierne l’emergenza non c’è peraltro bisogno di assistere all’adunata di camicie nere, al Musocco di Milano, oppure ai pellegrinaggi predappini o, ancora, alla crescente presenza di CasaPound insieme alle minacce, anonime o firmate che siano, nei confronti di quei giornalisti che indagano sul sottobosco neofascista. Sono solo alcuni tra gli estremi, altrimenti falsamente liquidati come residuo folcloristico, di una presenza invece carsica che, come tale, mai è venuta meno nel corso del tempo. Negli ultimi decenni ha poi trovato nuova linfa, inserendosi anche nel disagio sociale, ma soprattutto rivelando al medesimo tempo una capacità metamorfica e di adattamento che fanno del lascito del fascismo, di buon grado, «un passato che non passa».
Claudio Vercelli
(3/continua)