Stranieri, residenti, cittadini

raniero fontanaDa stranieri a residentiL’idea che il popolo ebraico non sia autoctono è indiscutibilmente biblica. Offrendo le primizie (bikkurim) dei prodotti del suolo al sacerdote, l’israelita dichiara di essere entrato (ki-bati: Dt 26,3) nel paese che Dio ha giurato ai padri di dare alla loro discendenza. M. Buber ha evidenziato il ruolo formativo che una tale dichiarazione ha aper la coscienza (todaah) di ogni israelita residente in terra di Israele. La condizione di estraneità (gerut) ha così impresso il suo tratto indelebile sulla coscienza di Israele. Già ad Abramo fu preannunciato che i suoi discendenti sarebbero stati stranieri (gerim) “in un paese non loro” (Gn 15,13). Stranieri, perché in Egitto; fuori-luogo appunto, perché in un paese non loro. Rashi (1040-1105), il grande esegeta ebreo medievale, definisce lo straniero (ger) biblico nel modo seguente: “L’espressione ger significa ogni volta un uomo che non è nato nello stesso paese (medinah) ma proviene da un altro paese per abitare là (kol lashon ger adam lo nolad be-otah medinah ella ba mi-medinah acheret lagur sham)” (Rashi su Es 22,20). Lo straniero, dunque, è il forestiero che viene da fuori per abitare (lagur) temporaneamente, in modo non definitivo, in un paese non suo. La Haggadah racconta che Giacobbe non scese in Egitto per impiantarvisi, per risiedere là in pianta stabile (lehishtaqea), ma per abitarvi (lagur sham). Egli e i suoi figli abitarono in Egitto come stranieri (ke-gerim). I padri fondatori di Israele furono tutti stranieri (gerim). Nel suo imponente studio dal titolo The Religion of Israel (New York, 1960), Y. Kaufmann pone l’epoca dei padri (tequfat ha-avot), precedente l’Esodo, sotto il segno dell’estraneità dello straniero: “La tradizione biblica inizia la storia israelitica con l’epoca dei patriarchi, un’epoca di peregrinazioni e di spostamenti della durata di quattro o cinque generazioni. I patriarchi sono descritti come capi di grandi nuclei tribali. Quello che caratterizza la loro condizione è il loro stato di gerim (protected aliens)” (p. 216). L’Egitto sigilla in modo permanente la loro esperienza ponendo tale condizione di estraneità come elemento basilare e formativo (meatzev) della coscienza di sé di coloro che dovranno diventare i futuri cittadini della terra di Israele. Significativo è ancora il nome scelto da Mosè per suo figlio Gershom (Es 2,22) – scelta che inscrive nella memoria e nell’identità la traccia indelebile della propria estraneità. Come accade con il ricordo della schiavitù in Egitto (Es 21; Lv 25; Dt 15), lo stesso accade con il ricordo del soggiorno da stranieri in quel paese non loro. Una volta entrati nella terra promessa ai loro padri, i figli di Israele dovranno tradurlo e renderlo operativo. Dalla coscienza di non essere autoctoni deriva un modo diverso di rapportarsi allo straniero che risiede sulla loro stessa terra. Essa accomuna lo straniero e il cittadino. Per questo la Torah richiama ripetutamente ai figli di Israele le loro origini straniere. Per non soccombere all’orgoglio che nasce dalla condizione di sapersi padroni in casa propria. Pure loro, i figli di Israele, sono di ceppo straniero sulla terra che Dio gli ha destinato. La presenza stessa dello straniero tra i figli di Israele è dunque per loro un costante rinvio alla propria storia e costituisce un appello pressante a rispettare i suoi diritti. È la memoria del soggiorno in Egitto a imporre i doveri della giustizia alla coscienza ebraica: “Non lederai il forestiero e non lo opprimerai poiché voi siete stati stranieri in Egitto (ve-ger lo toneh ve-lo tilchatzenu ki gerim heitem be-eretz mitzraim)” (Es 22,20). Non si tratta di un atto di misericordia soltanto, ma di un imperativo di giustizia. Esigenza di giustizia da articolarsi in norme. E qui mi fermo, senza entrare nel merito dei diritti e dei doveri dello straniero-residente (ger toshav) e del cittadino (ezrach) israelita, un tema assai complesso da affrontare, se non si vuole prescindere dai rapporti di forza, e non si vuole pagare l’esoso pedaggio esigito dalla modernità.
Per concludere. L’esperienza dell’estraneità (gerut) è parte del dna di Israele. Stranieri furono i padri e stranieri furono i loro discendenti in Egitto. La consapevolezza generata nei figli di Israele è tale da inaugurare nella terra stessa dei padri una cittadinanza ‘paradossale’. In questo consiste propriamente la dimensione politica della gerut. Dimensione che Israele è tenuto a incarnare con un modo di abitare ‘altrimenti’ la terra che da Dio ha ricevuto in possesso: da straniero in casa propria (keger baaretz). Situazione piu paradossale ancora di quella di Abramo. Egli, infatti, fu a sua volta straniero-residente (Gn 23,4: ger we-toshav). Ma se il luogo per lui era giusto – Abramo è l’ebreo (haivrì: Gn 14,13) e il luogo è la terra degli ebrei (eretz haivrim: Gn 40,15) – non lo era ancora il tempo. Suo era il tempo della residenza (toshavut) e non della cittadinanza (ezrachut).

Da residenti a cittadini
Pensatori ebrei come H. Cohen, F. Rosenzweig, E. Levinas, J. Derrida e altri ancora, hanno fatto dello straniero il punto di partenza di una riflessione che investe criticamente una concezione di cittadinanza basata sull’appartenenza e sul radicamento. Essi avevano di mira i nazionalismi xenofobi e i fanatici patriottismi. Ma tutti loro, ciascuno a suo modo, hanno deterritorializzato radicalmente l’esistenza ebraica. H. Cohen lo ha fatto in nome della missione universale che Israele ha da svolgere tra le genti; F. Rosenzweig in nome del carattere meta-storico di un Israele eterno; E. Levinas in nome dell’esigenza etica e della sua priorità; J. Derrida in nome dell’ospitalità. Per Avi Sagi, tutti costoro sarebbero parimenti interpreti di una tradizione tipicamente esilica (galutit) che, di fatto, è assai lontana dalla tradizione biblica che rivendicano per sé. Ma ancora più velleitaria è Donatella Di Cesare nel suo ultimo libro Stranieri-residenti. Una filosofia della migrazione (Torino 2017). Ella vuole spingersi ben oltre le esitazioni degli altri. Sovverte in modo arbitrario le categorie bibliche dello straniero (ger) e del cittadino (ezrach), invertendone i significati, quando vede nel primo il cittadino sperato e nel secondo uno straniero alienato. L’autrice vorrebbe tradurre in politica la visione inclusiva di uno spazio comune nel quale tutti sono ospiti di tutti, sempre in nome di una cittadinanza autentica che coincide, appunto, con l’ospitalità. Ella si propone di uscire finalmente dall’impasse tra etica e politica. Vuole abbattere la convinzione che l’ospitalità, oltre a essere impossibile, sia circoscritta all’etica, alla morale (p. 230). Il diritto non si deve arrestare al confine dello Stato. Ma può ancora chiamarsi politica quella che si esaurisce nel puro gesto dell’accoglienza indiscriminata dell’altro, lo straniero, e non si preoccupa affatto delle conseguenze che potrebbe avere? Che non assume ora la responsabilità del dopo? Ella scrive: “Ma quel che sarà appunto in seguito, non può essere previsto né determinato anzitempo e non ha nulla a che fare con il gesto dell’accoglienza che fa posto all’altro” (p. 247). A me sembra che non sia solo lo Stato, il suo bersaglio preferito, a non potersi permettere il rischio di un comportamento avventato. L’ospitalità ha essa pure le sue leggi e i suoi cerimoniali. E una loro osservanza che volesse prescindere dal contesto e dalle situazioni, potrebbe avere un prezzo spaventoso, come, per esempio, il sacrificio delle figlie preconizzato nella storia di Lot (Gn 19). Guarda caso, C. Di Sante, nel suo libro Lo straniero nella Bibbia. Ospitalità e dono (Milano 2012), mentre annovera l’episodio tra le ‘pagine stupende’ della Bibbia sull’ospitalità allo straniero, tace però sulle figlie e sorvola sull’offerta crudele del padre (pp. 18-19). Di grave non ci sarebbe che la tentata violenza dei sodomiti nei confronti dei due ospiti illustri – tanto illustri da rendere forse sopportabile qualunque prezzo? Questo libro, sintomatico dell’effetto-valanga causato dall’opera di E. Lévinas, compare nella bibliografia della Di Cesare. Proprio l’ebraismo, di cui l’autrice si vorrebbe autentica portavoce (ma ho il fondato sospetto che in questo ambito l’ebraismo si riduca per lei a S. Trigano e alla sua nota ossessione per le dicotomie paoline), insegna la misura e non perde mai di vista la realtà. Lei vorrebbe dar voce agli stranieri in carne e ossa che popolano le nostre città. Non vuole passare attraverso la retorica dello Straniero con la ‘s’ maiuscola o dell’Altro con la ‘a’ maiuscola. Ma la voce che ascoltiamo, quando ci parla, tra i tanti, di M. Heidegger e di H. Arendt, è esclusivamente la sua. Ho insomma la netta impressione che a monte del suo discorso sullo straniero ci sia la ‘logica di polarizzazione’ di cui ha scritto Z. Bauman nel suo libro La società dell’incertezza, (Bologna 1999; 2016): “Il chiasso e lo scalpore arrivano da altre zone della città” (p. 71); le stesse che lei ha tutta l’aria di non frequentare: “Non c’è straniero (zar) da noi, in casa” (1Re 3,18). Quanto sia astratta e velleitaria basterebbe a illustrarlo il suo giudizio sulla riflessione dedicata allo straniero di A. Schütz (pp. 152-153), il quale, proprio perché esule lui stesso, testimonia e comunica la sua esperienza anche attraverso il gergo tecnico della sua disciplina, cosa che gli riesce bene, risultando, lui sì, credibile. La tradizione biblica insegna che lo straniero (ger) che vive in terra di Israele è il non-ebreo (goy). E tale resta. Il fatto di essere straniero non lo fa diventare ebreo. Mentre l’ebreo in terra di Israele è cittadino (ezrach) (Es 12,49; Lv 16,29; 18,26; 19,34; 24,16.22, ecc.) e non straniero. Egli è ‘cittadino della terra’ (Nm 9,14). La tradizione biblica non concede agli ebrei entrati in terra di Israele un diritto di residenza (toshavut) soltanto, ma concede loro il diritto di cittadinanza (ezrachut). La definizione del termine usato per indicare il cittadino si trova nel Salmo 37 (v 35: ezrach raanan) e ha il senso di pianta radicata nel suolo (tzemach mushrash baadamah). Il ricordo dell’Esodo introduce una dimensione che corregge le derive possibili della cittadinanza. Derive che sono implicite al suo carattere autoctono, indigeno e territoriale. Ma questo non autorizza la Di Cesare a idealizzare lo statuto di straniero-residente (ger toshav) al punto da elevarlo a paradigma di un altro modo di abitare. Già in un suo libro precedente: Israele. Terra, Ritorno, Anarchia (Torino 2014), concernente lo Stato di Israele, aveva posto la domanda seguente: come si può essere stranieri-residenti? (p. 50). Bastava chiederlo a me, e glielo avrei spiegato volentieri, avendo io tutte le carte in regola per farlo dopo 29 anni trascorsi in Israele da straniero-residente – si veda in proposito il mio Diario noachide. Un non-ebreo ai piedi del Sinai (San Pietro in Cariano, VR, 2015). La Bibbia, di cui la Di Cesare si vorrebbe esegeta sottile nel recupero dell’ebraico dei suoi testi (p. 188), non insegna affatto che la terra sia di tutti, non appartenendo a nessuno in particolare. Se, infatti, la terra appartiene a Dio, suo è il diritto di darla a chi vuole (Rashi su Gn 1). Dando la terra ai figli di Israele, Dio ha mantenuto la promessa fatta ad Abramo. E per loro ha così trasformato la residenza di Abramo in cittadinanza. Focalizzarsi solamente sull’uscita dall’Egitto, significherebbe amputare la storia dell’Esodo. Parimenti, sarebbe privare la storia biblica della sua coerenza, il voler puntare tutto sulla promessa come principio di una politica dello straniero, per impedire il radicamento, il possesso, la sovranità. La Di Cesare scrive: “Migranti su una terra promessa, ospiti tutti, rinviati l’uno all’altro, in un’accoglienza dell’estraneità che è il solo e unico vincolo di questo abitare” (p. 201). Come, infatti, negare un posto all’altro quando ciascuno è a sua volta estraneo al luogo, agli altri, a se stesso? Ma, ora chiedo, c’è forse uno scenario che sia più allarmante? Chi/cosa mi garantisce che l’ospite che è ciascuno di noi non diventi presto l’ostaggio di tutti gli altri? I rapporti di forza sono immancabili anche in uno spazio come quello che erige a norma l’alieno. La Torah, una volta donata al Sinai, è nelle mani di Israele. Lo è pure la terra a lui destinata. La Torah detta le condizioni della cittadinanza, certo, ma la terra è ormai inscritta nell’Alleanza di cui la stessa Torah sinaitica è la Carta. Poiché Dio sempre si ricorderà della terra di Israele e dell’Alleanza (Lv 26,42). Per concludere. La consapevolezza di essere (stati) stranieri suppone, per i figli di Israele, l’assegnazione della terra e la realizzazione della cittadinanza promessa. Una cittadinanza da mantenere aperta, certo, senza però cancellare ruoli e identità, e senza mai confondere l’ospite con lo straniero.

Raniero Fontana, filosofo, Pagine Ebraiche Febbraio 2018