Imparare a leggere
In The reader (adattamento cinematografico del romanzo A voce alta di Bernhard Schlink, film che ha valso il premio Oscar a Kate Winslet come migliore attrice protagonista e ha ricevuto tanto consenso di pubblico quante critiche sulla caratterizzazione dei carnefici come del popolo tedesco contemporaneo e di seconda generazione, ma non di questo intendo trattare) c’è un inciso in cui la figlia di una sopravvissuta – davanti all’ex ragazzo tedesco la cui intera esistenza è stata plasmata dalla relazione adolescenziale e dall’amore mai finito per una donna matura, di cui in seguito già studente universitario in legge scopre il passato di aguzzina nelle SS – pur non accettando dal protagonista il denaro destinatole dalla ex SS (suonerebbe come un’assoluzione, dice, ed io non posso e non voglio assolverla), lo invita a destinare la cifra a ciò che meglio crede.
Ho pensato ad un’ente ebraico per l’alfabetizzazione, ribatte l’uomo, dopo aver impedito l’attenuazione della pena per il suo antico amore al processo che la vede imputata insieme ad altre carnefici, responsabili di aver lasciato morire trecento donne tra le fiamme di un incendio in cui solo la figlia della sopravvissuta e la madre stessa si sono salvate – ma negli anni egli aveva poi anche deciso di recuperare in qualche modo il rapporto con la donna in carcere inviando, a lei analfabeta non dichiarata di cui lui solo conosce il segreto, registrazioni vocali dei libri che le leggeva da ragazzo quando erano amanti.
Esiste un ente ebraico per l’alfabetizzazione? Chiede il protagonista alla figlia della sopravvissuta, la quale ribatte che certamente esiste, c’è un’organizzazione ebraica per quasi ogni cosa, anche se l’alfabetizzazione non è mai stata un problema ebraico.
Di alfabetizzazione ed educazione ebraica ci parla oggi Antonella Castelnuovo a Pistoia per l’ultimo incontro dei quattro (inaugurati con Adam Smulevich e seguiti da chi scrive e Nicola Coccia) volti ad indagare memoria ed identità ebraica dalla Shoah ad oggi, attraverso un percorso dedicato ad un ebraismo vivo e vitale, di cui si può e si dovrebbe parlare non solo in occasione del Giorno della Memoria e non per ricordare soltanto il genocidio del popolo ebraico.
C’erano gli assiri, i fenici, i babilonesi e gli ebrei, ci ricordano i libri di testo dalla classe quarta della scuola primaria in poi; gli ebrei scompaiono dalla trattazione dei popoli antichi e li ritroviamo solo quando vengono assassinati nella Shoah, poi qualche cenno ad Israele (e alla questione israelo-palestinese in alcuni casi, ma come è affrontata apre nuove questioni ancora). Fine.
Anche dall’esigenza di trattare dell’ebraismo vitale, contemporaneo ed impegnato ad operare nel mondo, è nato il convegno cui sono seguiti gli atti curati da Antonella Castelnuovo, L’ebraismo ed i grandi educatori del ‘900. Le religioni come sistemi educativi (Belforte 2016): intervistata da chi scrive, Antonella è invitata a farci riflettere su una caratterizzazione ampia e sfaccettata dell’etica ebraica verso quanto ci circonda. Alcuni, tra i tanti casi trattati nel libro, possono essere esemplificativi di come l’ebraismo, in qualunque epoca e luogo, abbia sempre posto particolare attenzione alla mitzvà di educare i propri figli e trasmettere i valori di un’etica attenta oltre che alla fiducia nel messaggio divino anche e soprattutto al proprio atteggiamento nei confronti del prossimo (attraverso l’osservanza dei precetti dell’Halakà espressi dall’intento “faremo”, come anche con lo studio della Torà ed il ricordo del racconto del passato con le haggadot riassunto dal secondo intento, “e ascolteremo”).
I saggi di Stefano Levi della Torre e di Rav Roberto della Rocca contenuti nel volume ed oggetto di analisi oggi, rammentano il primo un ebraismo plurale per tradizioni, realtà diasporiche differenti (di solito esemplificate in realtà askenazita e sefardita ma nei fatti molto più variegate, con sotto categorie e gruppi originali non assimilabili né all’uno né all’altro, quale ad esempio l’ebraismo di tradizione italiana) eppure uniti dall’osservanza delle mitzvot e dallo studio della Torà, il secondo il legame di trasmissione intergenerazionale della conoscenza, l’importanza della famiglia come primo ente educativo, la necessità di studiare sempre – tanto che lo studio stesso della Torà è un ‘fare’, un precetto.
La Shoah ritorna, nella discussione con Antonella Castelnuovo, nelle letture di Marco Leporatti di brani tratti da testimonianze della vita di ragazzi rinchiusi in ghetti nazisti: ovunque, clandestinamente e con grandi difficoltà, non sono mai venuti a mancare enti clandestini impegnati nell’aiuto dei più bisognosi, così come nascevano circoli di studio, gruppi teatrali, associazioni volte ad abbellire un panorama urbano misero e degradato con piccoli orti e giardini pensili, perché anche l’educazione al bello non venisse meno.
Anche in circostanze estreme, la dignità ed il mantenersi umani sono passati attraverso l’educazione e la cultura, come nel caso, tra i tanti, di Yitskhok Rudashevski (nato nel 1927 e poi assassinato), rinchiuso nel ghetto di Vilnius, il quale organizzò una sorta di resistenza personale al nazismo, intraprendendo un lavoro molto impegnativo di ricerca sulla vita in ghetto nella precisa consapevolezza di essere non solo protagonista ma anche testimone.
Ytzhak Reichenbaum (nato nel 1932) rammenta invece il fervore intellettuale del ghetto polacco di Piotrków Trybunalski e l’importanza dello studio come forma di resistenza: c’erano numerosi insegnanti disoccupati, e genitori, come i suoi, che tenevano all’educazione e soprattutto all’educazione ebraica dei figli. Sua madre, racconta Ytzhak, assunse un docente che insegnasse ai due figli l’ebraico, in modo che potessero seguire le preghiere in sinagoga. “Cambiavamo spesso classe e luogo. La qualità era di livello elevato come a scuola” (intervista orale).
Della SS amata in gioventù e forse per sempre dal protagonista di The reader non viene detto molto, e quel poco che traspare di lei sembra non mostrare pentimento per la sua responsabilità nello sterminio: il mio ruolo era sorvegliare, afferma la donna al processo, e le selezioni servivano a fare posto a nuove prigioniere ebree in arrivo (ed il fatto che le donne selezionate fossero invece assassinate non sembra toccarla). Non pare aver compreso molto della gravità del proprio comportamento neppure dopo, visto che, ormai anziana, al protagonista che la sollecita a riflettere su quanto può aver imparato ribatte seccamente di aver imparato a leggere.
Ma forse imparare a leggere, da quando a tre anni il bambino assaggia i biscotti a forma di lettere ebraiche intinte nel miele (come nella cerimonia askenazita del primo taglio di capelli), è l’avvio ad una compresione morale del mondo in cui ognuno è responsabile di quello che fa prima ancora che di quello che è.
Sara Valentina Di Palma