Società – «Quei 418 messaggi che non ho letto»
In meno di tre giorni si sono accumulati nel mio cellulare (uno di prima generazione) 418 messaggi. Anzi, messaggini, secondo il lessico lezioso e vezzoso che adorna di fiori di carta le gabbie d’acciaio della tecnologia. Telefonini, messaggini, ditini che battono tastini. Non so cosa dicano, quei 418 appelli in una bottiglia, perché non sono capace di leggerli e dunque di rispondervi. Non è una stolida posa antitecnologica, sempre falsa e patetica, non solo perché si disconosce con supponenza l’aiuto che la tecnologia reca alla vita — basta pensare alla medicina e alla chirurgia — ma anche perché si crede che la tecnologia sia solo quella recente, quella che è piombata nella nostra vita già adulta, e si identifica la cosiddetta natura con la tecnica che c’era già quando si è venuti al mondo. La radio, ad esempio, mi sembra più «naturale» della televisione, perché quando sono nato i suoi suoni erano già nell’aria, come gli altri rumori della realtà, mentre la televisione è entrata a casa mia quando finivo il liceo. Nessuna psicosi o civetteria antitecnologica dunque, da parte mia. Semplicemente soffro di disabilità digitale, che è un handicap ma non una colpa, e invoco rispetto per questa mia «diversa abilità» digitale, come si dice in politically correct, così come chiedo comprensione perché non sono più in grado di fare le belle escursioni in montagna di una volta.
Tuttavia, direbbe Musil, in ogni più c’è un meno e in ogni meno un più. Se ne fossi stato in grado, avrei letto quei 418 dispacci e avrei risposto ad ognuno, come faccio con ogni lettera cartacea, almeno una quindicina al giorno. Calcolando 2,30 minuti per ogni lettura di sms e risposta, probabili controrisposte e mie relative repliche, avrei impiegato, credo, circa sedici ore. Due giornate di lavoro pieno, e verosimilmente altrettante nei tre giorni successivi e via di seguito. Dove resta il tempo per il lavoro col quale — a parte i pensionati, i milionari, i carcerati, i malati o i disoccupati — ci si guadagna di che vivere, e per leggere, passeggiare, incontrare gli amici, fare all’amore? Ai tavoli di ristoranti e caffè si vedono persone che non parlano tanto fra loro quanto con invisibili interlocutori al telefono e non solo un paio di volte, come sarebbe naturale, ma per quasi tutto il tempo che scorre fra l’antipasto e il dessert. Quando i due — o i quattro o cinque — cominceranno a parlare fra loro?
Anni fa Umberto Eco aveva fatto, con la sua invidiabile precisione, il calcolo di quanto tempo al giorno gli restasse per la lettura e la ricerca, detraendo dalle 24 ore quelle dedicate al sonno, alla doccia, alle lezioni, al pranzo e alla cena, alle telefonate, alle interviste, alla lettura delle email e alle relative risposte e via di seguito. Non ricordo la cifra esatta cui era giunto, mi sembra fra i dodici e i diciotti minuti. Certamente Eco era al centro di una rete di comunicazione particolarmente affollata, ma oggi il numero di persone sottoposte a ritmi pressoché analoghi è alto. Sono, siamo, gli esclusi dalla vita e ignari o quasi di essere tali. Siamo i nuovi servi della gleba, operai alla catena di montaggio e forzati alla catena, privati incessantemente della nostra vita. Un lavoro coatto che recluta non soltanto, come in passato, plebi affamate che non possono dire di no se vogliono almeno sopravvivere, ma anche la classe media e quella alta, che potrebbero vivere umanamente ma sono strappate anch’esse alla loro esistenza, ai colori e alle luci della stagione, perché le chiamate — non solo telefoniche — di ogni genere sono anche per essi ordini, obblighi.
Con l’esattezza di un’equazione, si può dunque calcolare matematicamente pure il progressivo abbassamento di ogni conoscenza cui si va incontro e anzi si è già arrivati, perché, qualsiasi sia la vera (?) natura del tempo su cui discutono fisici e matematici, nella vita quotidiana un’ora impiegata in un’attività significa un’ora non impiegata in un’altra. Sedici ore al telefonino o al computer per le email significano sedici ore sottratte a tutto il resto, pure all’acquisizione di nuove conoscenze. Per combattere un azzeramento totale delle conoscenze di vario genere si formerà o si sta già formando un’altra, ferrea classe sociale agiata (e più che agiata) e intellettuale, che riserverà a sé il tempo. Come in passato il signore non lavorava la terra dei cui prodotti si nutriva e deferiva il tempo oltre che la fatica del lavoro al servitore, dedicando il tempo liberamente a sua disposizione ai propri interessi, così il signore affiderà al servitore, per poter vivere la centuplicata fatica e il centuplicato tempo della comunicazione. I nuovi servi della gleba non zapperanno più la terra, bensì risponderanno a trilli, squilli, tintinnii, vibrazioni, pulsazioni, fremiti, tremolii.
Ovviamente ciò accade già adesso; non è l’amministratore delegato e nemmeno il capoufficio che scrive e legge le innumerevoli email, così come non è il direttore generale, uomo o donna, che getta la sua biancheria usata fra le altre da lavare. Ma è già pressoché svanita la netta distanza tra la sfera personale e lavorativa e quella rappresentativa e vagamente sociale; l’aumento esponenziale delle relazioni e soprattutto delle comunicazioni personali e private o quasi personali e private, e la differenza o impossibilità di distinguere nettamente fra esse, costringerà ad affidare al servitore anche la gestione della vita personale o quasi del padrone, che così potrà leggere Leopardi, studiare la meccanica quantistica o il cinese, ascoltare Bach o andare a zonzo come i cani randagi per le vie di Parigi nell’incantevole film Mon oncle di Tati. Sarà, è difficile per la maggioranza di noi — servi che credono di far parte della casta dominante e padroni che non si accorgono di essere coatti a nuovi lavori servili — sapere da che parte stiamo, se apparteniamo ai dominatori o ai dominati.
Un nuovo capitolo dell’immortale dialettica servo-padrone di Hegel. E anche in questo caso il servitore, gestendo la realtà farraginosa della vita e i suoi cambiamenti tecnologici e umani, ne diverrà il vero pilota e padrone, il vero signore, come un servo che, obbligato da un marito a sostituirlo nelle fatiche del talamo coniugale, diventa il vero, reale marito. Difficile dire chi dei due se la passerà peggio.
Claudio Magris, Corriere della Sera, 11 febbraio 2018