Società – Un’eredità difficile
“Giusto Tu sei H. e retta è la Tua Giustizia”. Ogni volta che accompagniamo un defunto all’estrema dimora ripetiamo queste parole. La morte, si sa, è momento di din (“giudizio”) per eccellenza. Ma non solo per l’anima di chi non c’è più. Nella nostra Tradizione due sono gli attributi della Divinità. Il chessed (“bontà, misericordia”) connesso strettamente con la nozione di “dare”. E il din, appunto. Questo è legato al concetto di “ricevere”. Nel senso che quando ci si aspetta di ricevere qualcosa, si viene giudicati se si è meritevoli di riceverlo. Il trapasso è dunque momento di din anche per gli eredi. Se questo vale per la prospettiva di un’eredità materiale, tanto più nel caso di un’eredità intellettuale e spirituale. La figura di rav Giuseppe Laras, recentemente scomparso, ci ha lasciato un’eredità morale di enorme portata. Legata non solo alla sua versatilità e alla molteplicità dei suoi interessi (rabbino, filosofo, scrittore, come è stato giustamente ricordato), ma anche per la straordinaria varietà dei ruoli che ha ricoperto: rabbino capo di tre Comunità, presidente dell’Assemblea rabbinica, presidente di un Tribunale Rabbinico, docente universitario. Un’eredità che non sarà facile raccogliere e gestire. Ben inteso, non mi riferisco in questo momento alla sua successione nelle cariche formali, ma al suo messaggio complessivo e complesso a un tempo. Nella Menorah, il candelabro a sette braccia del Bet ha-Miqdash, un lume era perpetuo (Ner Tamid), nel senso che mentre gli altri sei erano accesi dalla sera alla mattina soltanto, questo ardeva sempre. È nota la controversia sulla sua identificazione. Secondo una scuola era il lume posto a una delle due estremità; secondo l’altra scuola era invece il lume centrale, verso cui tutti gli altri erano rivolti. Nella sua prefazione alla versione italiana degli Shemonah Peraqim (“Otto capitoli”), la dottrina etica di Maimonide che rav Laras pubblicò negli anni Settanta, egli ricorda come nella storia del pensiero ebraico convivano due dottrine differenti sulla qedushah, la virtù ideale nel comportamento. Una prima dottrina, che ha la sua base nei libri biblici di Iyov (Giobbe) e Qohelet predilige un impegno “estremo”, ai limiti dell’ascesi. Pensatori come R. Yonah da Gerona nel Medioevo e R. Moshe Chayim Luzzatto (Ramchal) in epoca più prossima a noi hanno condiviso questa veduta. L’altra trova la sua espressione biblica nel libro dei Mishlè (Proverbi) ed è rappresentata proprio da Maimonide: essa stabilisce che la massima virtù consiste nel perseguire il giusto mezzo tenendosi lontani dagli estremi. È il lume centrale cui ci si appella come guida. Rav Laras ha incarnato quest’ultima visione non solo nei suoi interessi accademici, ma anche nella sua attività rabbinica in un’epoca in cui sembrava prevalere decisamente la prima. In un frangente in cui l’unità del gruppo non pareva all’ordine del giorno del mondo ebraico e tendenze particolariste sembravano avere il sopravvento anche nel nome di principi importanti ed elevati, egli ha sempre messo l’accento sulla necessità primaria di mantenere la compagine della Comunità al di sopra di ogni altra considerazione. A mio modesto avviso ciò va anche collegato a due esperienze personali che lo hanno profondamente segnato. La sua infanzia di figlio della Shoah gli deve aver suggerito quanto una Comunità piccola come la nostra non possa permettersi divisioni di sorta a fronte di un nemico esterno la cui violenza è endemica. In secondo luogo, giova ricordarlo, rav Laras ha ricoperto la cattedra di una Comunità “grande” (nel suo caso Milano) dopo essere passato da una Comunità “piccola” (Ancona) e da una Comunità “media” (Livorno). Prima di lui anche rav Toaff z.l. era approdato da Livorno a Roma passando per Ancona e Venezia. Rav Laras era nato a sua volta a Torino, dove si era formato alla Scuola di Rav Dario Disegni z.l. Chi meglio di rav Laras avrebbe potuto rendersi conto, anche una volta giunto all’apice della carriera, delle esigenze di realtà dalle risorse deboli, legate a una sopravvivenza quotidiana sempre più ardua e certamente lontane dalle esperienze sia pure interessanti e accattivanti dei “grandi” centri. Da qui l’urgenza da lui sentita di creare un Bet Din (Tribunale Rabbinico) che dedicasse i propri sforzi alle Comunità più esigue e marginali. Un’iniziativa che a suo tempo fu accolta non senza incomprensioni. Forse queste avrebbero potuto essere mitigate se solo il Bet Din in questione avesse avuto sede a sua volta in una Comunità diversa da Roma e Milano, vicino al proprio raggio d’azione e lontano dal rischio di interferenze. Ma a questo punto non spetta a noi giudicare. Oggi l’interrogativo da porsi è proprio come salvare l’ebraismo italiano, o anche solo mantenerlo in equilibrio fra la dissoluzione per mancanza di forze e l’assimilazione per mancanza di ideali. Ci si domanda se promuovere le due realtà maggiori, qualitativamente più significative e promettenti, consci del fatto che solo fra Testaccio e Trastevere vivono oggi più ebrei di quanti sono gli iscritti alle diciannove Comunità minori messe assieme; o se dare un’estrema fiducia a queste ultime in tutti i sensi, che domandano di non essere lasciate al proprio destino. È un dilemma obbiettivamente difficile. Rav Laras una risposta ha cercato di darla, nel segno della mediazione. Con la saggezza di chi operava conciliando il cervello con il cuore. Ora “udii la Voce di H. che diceva: chi manderò? chi andrà per noi?” (Yesha’yahu 6,8).
Rav Alberto Moshe Somekh, Pagine Ebraiche, febbraio 2018