Il paradosso di Paolo e Francesca
Da anni ne sto facendo un punto d’onore, una sfida con me stessa: quando devo spiegare il quinto canto dell’inferno, cioè quello di Paolo e Francesca, faccio il possibile per avere gli allievi tutti presenti. Li avverto con una o due settimane di anticipo, mi informo sulle loro assenze prevedibili e sulle attività organizzate dalla scuola, spesso arrivo anche a modificare il calendario delle lezioni perché Paolo e Francesca cadano in una data propizia. Ebbene, per una sorta di destino avverso o di maledizione il mio sforzo non riesce mai: ci sono sempre uno o due allievi impegnati fuori dalla classe in una forma ufficialmente autorizzata dalla scuola. Certamina, gare sportive, concorsi di vario genere, incombenze burocratiche, e ultimamente ci si è messa pure l’alternanza scuola-lavoro. Spesso, come accade in molte leggende e tragedie greche, si scopre all’ultimo momento che è stato proprio il cambiamento di data a nuocerci, perché anche l’impegno esterno si è spostato all’ultimo minuto dalla data inizialmente prevista (che quindi si rivela tardivamente propizia) a quella attuale, oppure è saltata fuori qualche altra novità. E non pensate che siano gli allievi stessi ad inventare scuse per andarsene, anzi, devo riconoscere che fanno di tutto per essere presenti, non so se per compiacermi, per assecondare la mia bizzarra ossessione o perché davvero non vogliono perdere la lezione su un testo così famoso; sta di fatto che quasi sempre l’assenza non è una loro scelta.
Ovviamente capita la stessa cosa con qualunque lezione di qualunque materia.
Mi direte: con tutti i problemi che ha la scuola italiana, con le notizie sempre più frequenti di insegnanti aggrediti e malmenati da allievi o genitori, non è proprio il caso di preoccuparsi di uno o due ragazzi (e per giunta di solito tra i più bravi) che saltano una lezione. Ebbene, io vedo le due cose come le due facce di una stessa medaglia. Perché se persino un liceo classico serio e prestigioso non è in grado di garantire ai propri allievi la certezza di partecipare a una lezione su uno dei testi più famosi della letteratura italiana vuol dire che nel sistema c’è qualcosa che non funziona: quale credibilità di fronte al mondo esterno può avere una scuola che sembra dare per scontato che nulla di ciò che accade nella sua quotidianità sia davvero essenziale? E quale credibilità professionale può avere un insegnante nel momento in cui tutto ciò che fa o dice è considerato in qualche modo superfluo? Quale prestigio può avere una persona che è destinata istituzionalmente a passare sempre e comunque in secondo piano?
Non so quali siano le cause; forse bisognerebbe rivalutare la tanto vituperata lezione frontale, che peraltro può essere un momento di dialogo e confronto tra tutti gli allievi di una classe. Certamente occorre un’ampia riflessione sul ruolo dell’insegnante.
Ovviamente la mia impuntatura sul quinto canto dell’inferno è simbolica; non ho una particolare ragione personale che mi lega a Paolo e Francesca (una volta tanto non ci vedo neanche agganci evidenti con la cultura ebraica e, a differenza del canto di Ulisse – che sarà oggetto tra due o tre mesi di un’altra mia sfida disperata – non c’è neanche un collegamento con un passo famoso di Primo Levi); anzi, Francesca mi sta pure un po’ antipatica nella sua incapacità di assumersi le proprie responsabilità. Difetto, peraltro, che ha in comune con una scuola che sembra aver rinunciato a credere in se stessa.
Anna Segre