Memoria – La strada di casa e la retorica degli “italiani brava gente” demolita
Elisa Guida / LA STRADA DI CASA / Viella
È uscito da pochi mesi, ma si è già ben distinto. Storici e addetti ai lavori concordi: è un libro che colma un vuoto, permettendo di inserire nuovi tasselli di consapevolezza nel grande quadro di una Memoria su cui ancora tanto si può lavorare. La strada di casa (ed. Viella), brillante saggio di Elisa Guida dedicato al ritorno dei sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti nelle loro città e nei loro paesi d’origine, è un libro che lascia il segno. E in cui, con testimonianze inedite, si mette nuovamente a nudo la retorica degli “italiani brava gente” che tante volte ha inquinato il discorso pubblico sul Novecento e le responsabilità del paese, a tutti i livelli, nella persecuzione e nella deportazione degli ebrei. Chi si occupò di loro, e che cosa significò tornare a casa dopo essere sopravvissuti all’esperienza più drammatica del Novecento? Si sviluppa a partire da questi interrogativi il saggio di Guida, che è dottore di ricerca all’Università degli Studi della Tuscia e che tra i vari incarichi siede nel comitato che ogni anno permette l’apposizione di nuove “stolpersteine” ‐ le pietre d’inciampo ideate dall’artista tedesco Gunter Demnig ‐ nelle strade di Roma. Un lavoro, quello della 35enne studiosa laziale, che dopo la prima presentazione alla Camera dei Deputati avvenuta su iniziativa dell’Associazione Nazionale Ex Deportati, ha fatto il giro di molti atenei. Scrive l’autrice nel suo testo: “Nella memorialistica il momento della liberazione dai campi, trattato in poche battute, segna in genere la fine del racconto. Solamente pochi testimoni, e per lo più in memorie di scrittura recente, hanno aperto la riflessione al dramma del ritorno a casa e alla normalità”. Memorie e ricordi scomodi perché, come osserva Guida, l’Italia ha avuto una gran difficoltà ad andare a recuperarli. E molto più spesso sono state organizzazioni ebraiche e non governative ad attivarsi per far tornare a casa i pochi reduci dall’inferno dei lager ancora in vita. Un paese in genere impreparato, ad accogliere non solo le persone ma anche le drammatiche storie ed esperienze che portavano con sé. Storie che, sottolinea, “avrebbero rimesso in discussione quel mito”. Ulteriore conferma, aggiunge, “che i silenzi non sono mai a caso”. Ha osservato Mario Avagliano in una sua recensione sul portale dell’ebraismo italiano www.moked. it: “Il libro di Elisa Guida rappresenta un ulteriore punto di vista sulle vicende della Shoah e sull’Italia del dopoguerra, colta nella fase di transizione alla democrazia. Ne deriva una storia corale che parla di ricostruzione, di incontri e di abbandoni, ma anche di un paese che, dopo aver in larga parte appoggiato le politiche razziste del regime fascista, dimostrò poco interesse e solidarietà per le sofferenze e la difficoltà di reinserimento nel mondo civile dei reduci dai lager nazisti e si dimenticò a lungo di loro”. C’è dunque un vuoto non irrilevante, ed è là ‐ come è già stato fatto notare sul portale UCEI ‐ che questo saggio si inserisce con molti elementi nuovi. Cinque i capitoli in cui è suddiviso. Nel primo, Via dall’Italia, l’obiettivo è quello di dare al lettore “le coordinate necessarie per l’iniziare a misurarsi con la vastità e l’eterogeneità della massa dei reduci da prigionia che, nel dopoguerra, tornavano in patria”. Nel secondo si inquadra invece l’esperienza dei superstiti della Shoah in una visione più ampia, “comprendente tutti gli italiani reduci da prigionia”. Mentre il terzo, dalle ‘marce della morte’ fatali per migliaia di prigionieri ci porta fino alla conclusione dell’incubo: la liberazione dei lager. Il quarto approfondisce la storia dei rimpatri di Auschwitz, lager scelto come ‘case study’ perché, spiega la ricercatrice, è quello dove si conta “la più alta percentuale di ebrei italiani sopravvissuti alla Shoah” e perché permette di seguire le vicende dei sopravvissuti “in tempo di guerra e in tempo di pace”. Infatti, ricorda Guida, l’Armata Rossa vi entrò ben tre mesi prima della fine del conflitto in Europa, ma la maggior parte dei superstiti tornò in Italia solamente alcuni mesi dopo la resa incondizionata della Germania. L’ultimo capitolo infine, efficacemente intitolato ‘Il rimpatrio come fatto esistenziale’, è dedicato “al significato profondo, storico e morale del viaggio”. Un’esperienza che, viene chiarito, non rappresentò affatto la fine dell’offesa, ma piuttosto una tregua tra due guerre. Quella che aveva sconvolto il mondo e volgeva al termine, e quella interiore affrontata dai salvati per tornare a loro stessi. Quella purtroppo, osserva l’autrice, “era appena incominciata”. E più si recuperavano razionalità e salute, più l’angoscia si faceva profonda. Ha raccontato Piero Terracina a Guida: “Più stavo meglio e mi riprendevo fisicamente, più ricominciavo a ragionare e a pensare. Pensavo ai miei genitori, a mio nonno e a mio zio che ero certo non avrei più rivisto. Avevo poche speranze anche di riabbracciare mia sorella Anna, perché l’avevo vista ad Auschwitz, stava male e aveva iniziato a perdere i denti. Dei miei fratelli sapevo che erano partiti con le marce della morte. Temevo per la loro sorte e piangevo. Piangevo a dirotto”. Un legame fortissimo quello dell’autrice con il Testimone. Non sorprende quindi che proprio alla giovane studiosa, attraverso un assegno di ricerca della sua università, sia stato assegnato il compito di raccontarne la storia in un libro che si annuncia significativo. Un’iniziativa che vede coinvolta l’Aned e che dovrebbero trovare la strada della pubblicazione in un paio di anni.
Italia Ebraica, febbraio 2018