Fondamenti di ebraismo, il laboratorio

Fondamenti di Ebraismo, il progetto dell’UCEI, è partito. E sembra già un miracolo. Un corso di lezioni sul pensiero ebraico che avrebbe l’ambizione di durare tre anni. È partito, non proprio con il vento in poppa, per qualche problema tecnico. Lo streaming che collegava le comunità non ha funzionato alla perfezione durante la prima lezione da Torino. A Bologna, la lezione è andata decisamente meglio, malgrado una breve sconnessione finale.
I problemi tecnici sono dovuti, innanzitutto, a carenza di fondi. Regia, videoregistrazione, gestione dei collegamenti con le sedi comunitarie, telefonate con le sedi cui cade l’audio, tutto è seguito da una sola persona. Si sta correndo ai ripari, ma la situazione non è facile. Ciò di cui stiamo prendendo atto è che le comunità, in genere, non offrono condizioni e attrezzature idonee all’operazione avviata. La strada dell’aggiornamento tecnologico sembra ancora lunga. Detto con estrema onestà: la colpa è di chi, il sottoscritto, era convinto che il problema tecnico fosse il minore. Ci si illudeva anche che ogni comunità avesse un giovane tecnologico, capace di sbrigarsela più o meno da solo. Così non è, anche se da anni si va dicendo di mettere in rete le piccole comunità per condividere servizi e prestazioni. Non siamo pronti.
Un problema è anche, fra molti entusiasmi e consensi, l’indifferenza con cui buona parte delle comunità sta accogliendo il progetto. Come se riunirsi non avesse molto senso. Non per studiare, almeno. Lo spirito di aggregazione è venuto meno, ce lo dicono sconsolati i presidenti con cui abbiamo parlato. E ce lo dicono i rabbanim che stiamo coinvolgendo. Del resto, se la situazione fosse stata diversa da così non ci saremmo impegnati, rav Della Rocca e il sottoscritto, a inventarci un progetto culturale di aggregazione comunitaria attraverso lo studio.
Ho scritto più volte che ciò che più ci lega all’ebraismo è la memoria della Shoah e la difesa di Israele. Nessuno contesta la giustezza e il merito di entrambi i sentimenti, imprescindibili, ma il nostro ebraismo non può ridursi a questo. Se, per assurdo, non ci fosse bisogno di ricordare la Shoah, e se, per assurdo, non ci fosse bisogno di difendere Israele, ci si chiede che genere di ebraismo sarebbe il nostro. Per fortuna, si potrebbe dire ironicamente, così non è, e Shoah e Israele ci distolgono dalla cura del nostro essere ebrei: del come essere ebrei e perché.
Più volte, in occasioni congressuali, è stata sollevata la polemica contro il passatismo delle piccole comunità, occupate a curarsi di cimiteri e musei. Come per il solo interesse di lasciare un segno del proprio passato, anziché impegnarsi a vivere ebraicamente il presente. In verità, nelle piccole comunità c’è anche chi fa altro. Ma si tratta di casi piuttosto rari. È vero, e duole riconoscerlo agli interlocutori di antiche polemiche, che in genere, il lavoro di comunità – non solo nelle piccole – va a favore dell’immagine. Musei, festival, mostre, giornate della cultura, festival cinematografici, deposizione di corone. Spesso siamo usati, ci prestiamo come attori sulla scena di effimeri rammarichi, fittizi mea culpa, fugaci contrizioni. Partecipiamo, ignari ma disponibili, a sceneggiate che ci vogliono vittime e sopravvissuti. Non che tutto ciò non abbia una sua utilità: socializzare, farsi conoscere, contrastare il pregiudizio, ricordare al mondo le tragedie del passato. Ma c’è un pericolo mostruoso dietro l’angolo: non dimenticherò mai lo storico tedesco che a un convegno affermò: “a forza di ricordare agli altri il male subito, le vittime rischiano di trasformarsi in carnefici”. La memoria degli altri stanca, irrita, e alla fine la si rifiuta e la si nega. Magari la si compensa con la politica di Israele.
La vita di una comunità non si può risolvere in attività di conservazione e di commemorazione. Non si può risolvere in attività che curano l’immagine qundo l’immagine non è affatto ciò che si è. Rappresentare non è essere, specie quando la rappresentazione è al di sopra e al di là della realtà.
I consigli di comunità sono presi da problemi economici, da restauri di sinagoghe, da cure cimiteriali. Incombenze primarie. Ma la scelta dell’attività culturale cade poi, guarda caso su ciò che appare. Da attori diventiamo comparse, senza che la nostra identità sia mai la vera protagonista.
Le lezioni avviate con il progetto Fondamenti di ebraismo hanno attirato in alcune sedi comunitarie un numero di iscritti che forse non ci si sarebbe aspettati. Una bella sorpresa. Ma si è lontani dal poter coltivare illusioni. La socializzazione delle comunità è in crisi. Ed è in crisi quell’amore per lo studio che il mito metropolitano riconosce come storico retaggio del nostro popolo. Il moderno ci ha risucchiato nel suo vortice e ci ha annullato, alla stregua di chiunque altro. Non siamo diversi.
Fondamenti di ebraismo è un progetto di studio sui principi fondamentali del pensiero ebraico che per secoli ci ha tenuto in vita e ci ha tenuto insieme, malgrado qualche piccola traversia. Uno studio che non possiamo abbandonare per non abbandonare la consapevolezza e l’essenza della nostra identità, più che i fronzoli di cui la possiamo rivestire.
Il programma del progetto, che compare in un gruppo di Facebook accessibile agli iscritti alle comunità, dovrebbe svolgersi nell’arco di tre anni. Non sappiamo se resisterà tanto. Certo, dipende molto dalle comunità, dai singoli e dall’insieme. Ma soprattutto dalla volontà di chi guida le comunità di prendere coscienza del problema della nostra sopravvivenza identitaria e di dare, essi per primi, un segnale forte. Perché non si dimostra coscienza della crisi se, in prima fila, a studiare, non ci sono presidente e consiglieri, a studiare per sé e a dare l’esempio agli altri. Perché la continuità dell’ebraismo non la si garantisce con l’amministrazione e la politica locale.
Fondamenti di ebraismo è un’occasione. Ne potrà uscire, fra l’altro, una fotografia del contributo della cultura dell’erbaismo italiano in questo inizio secolo. Si auspica che chi ha responsabilità di governo quest’occasione la sappia cogliere, sacrificando l’effimero del presenziare e il superfluo del mostrare. Per una volta si tratta di esserci. E di essere.

Dario Calimani
(Responsabile, con rav Roberto Della Rocca, del progetto)

(22 febbraio 2018)