Machshevet Israel – Guido Ceronetti, la mistica irriverente
Ho sempre avuto una grande ammirazione per Guido Ceronetti. E anche una certa soggezione. È irriverentemente geniale, sconfortantemente necessario. La sua è la voce di un contemporaneo Giobbe, che però ha rifiutato l’happy end; un nuovo Qohelet, senza mitzwot; un incrocio innaturale ma felice tra lo spirito di Kafka, il senso critico di Benjamin e la prosa di Beckett. Ovviamente, grida nel deserto. In tempi in cui la cultura italiana (anche ebraica) snobbava la Bibbia e ignorava il Talmud, Ceronetti ha studiato ebraico e aramaico (come faceva in parallelo Paolo De Benedetti, stessa leva) e ci ha dato le originalissime traduzioni, appunto, dei Libri di Giobbe e di Qohelet, dei Salmi e di Isaia, nonché del Cantico dei cantici, il manifesto di ogni ‘attesa’ e di ogni ‘ricerca’. Nell’anno dei grandi anniversari (Dichiarazione Balfour, Rivoluzione russa, guerra dei sei giorni) ossia il ’17, Ceronetti ha celebrato i novant’anni pubblicando la raccolta dei sui testi (2002-1017) sul messia e ha intitolato le tre paginette di introduzione “Pensare il messia”. Graffianti, profonde, vere. E anche sincere. Scrive: “Non lo aspetto, non mi pare di averlo mai aspettato. Resta però nell’armadio delle speranze cieche, le sole che valgono, e mai ne butterò via la chiave. Si è nel messianico finché si è nell’umano”.
In questo volumetto Adelphi, che si intitola semplicemente “Messia” e accoglie una dozzina di poesie, Guido Ceronetti spigola nella storia del pensiero occidentale, del pensiero ebraico e della letteratura europea. Ha così creato la propria micro-antologia sui messianismi d’ogni epoca, da quelli politici-millenaristi (le utopie) a quelli psicologici (i sogni), da quelli simbolici (Isaia lo metterei in questo gruppo) a quelli dell’assurdo (da Ionesco a Buzzati). Non faccio la lista, ma vi trovate anche il trattato Sanhedrin e i buberiani Racconti dei chassidim, e naturalmente il Kafka d’annata, ossia dai Diari del 1917: “Il messia verrà soltanto quando non ci sarà più bisogno di lui”. Più che un vademecum per l’attesa messianica, è uno Spoon River di quel che, ex post, potremmo definire il più grande cimitero delle frustrazioni umane, l’enorme fossa comune di disillusioni e delusioni, di occasioni perdute e di venute mancate. Come l’angelo della storia klee-benjaminiano, il messia si muove osservando queste macerie e tra queste miserie, mentre Ceronetti, come suggeriva Spinoza, non ride e non piange e non rimpiange, ma si sforza di capire. Quasi che pensare o ripensare il messia, il principio-speranza e la vis dell’attendere – speranze cieche e attese assurde ma irrinunciabili – sia in fondo la ragione più profonda del “fare filosofia”. Af-‘al-pi-ken, ciononostante! Dice Ceronetti: “Una fettina marginale di popolo ebraico attende il Messia tuttora e fa bene: non importano gli errori di identificazione, è il lumino chassidico che in qualsiasi America o Europa va tenuto acceso”. Vi è un cenno anche al messianismo sionista (non poteva mancare) e non è lusinghiero (nella misura in cui il sionismo si vuole messianico, s’intende): “Il simbolico, generatore di smisurato e di vertigine, nell’attuale terra di Israele, è troppo occultato dall’opacità che ugualmente significano sia la guerra che la pace (due opposte e simili signore) per essere in qualche modo discernibile. Nel messianismo sionistico credette anche Kafka: una pienezza di vita le cui palpebre non sbattono più. Resta la violenza dello scontro con i vicini: potrebbe una strada senza fine di vittime allineate in mezzo alle grida essere il ponte, al culmine dello sfinimento e della non-gloria, di una Venuta concepita come soluzione assoluta?”. Non chiediamogli analisi geo-politiche: è un poeta, pensa con le immagini. Non vuol far ridere né piangere, vuol far pensare.
Ultima battuta, sulla religione che, del messianico, ha preso e rivendicato per sé anche il nome. Dice Ceronetti: “La grande sciagura dei cristiani: crederlo venuto in un illo tempore storicamente determinato. Si danno Messia venuti? Un Messia venuto non trasformato immediatamente e intemporalmente in venturo è un Messia bruciato e tradito, vocato a esserlo”. Ma forse, suggerisce il poeta che è anche filologo della lingua sacra, l’ambivalenza che fa confondere il passato (venuto) con il futuro (venturo) sta nel verbo, nel dettaglio della scrittura semitica che si affida al waw inversivo… Il messia appeso alla lettera ebraica waw!
PS. Nel ’17 è uscito anche un volumetto che Paolo De Benedetti e io abbiamo pensato e scritto insieme, poco prima che il mio maestro mancasse a questo mondo. Porta il titolo “Saper attendere. Il messia come speranza”, è edito da Morcelliana. In quelle pagine riproponiamo di rileggere l’Haggadà di Sanhedrin 98a (l’incontro di R. Jehudà ben Levi con il messia che siede alle porte di Roma…). Qual è il suo nome, il suo segreto, il suo messaggio? Né ieri né domani, ma hayom, oggi, se lo vorremo.
Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI