LETTERATURA Aharon Appelfeld, la salvezza nella lingua ebraica
“L’arte è essenzialmente testimonianza. Testimonianza umana, importante quanto quella più scientifica della storiografia”. In un colloquio torinese con Manuel Disegni, il grande scrittore israeliano Aharon Appelfeld spiegava così il ruolo avuto nella sua vita dalla letteratura, intesa appunto come arte della testimonianza. Nel suo caso, soprattutto testimonianza dell’orrore della Shoah, che nelle sue innumerevoli opere (45) Appelfeld – scomparso in gennaio all’età di 85 anni – seppe raccontare con lucida e disarmante innocenza. “Non sono capace di immaginare un vero scrittore che non tratti di se stesso e della sua vita” spiegò a Disegni, che lo intervistò per Pagine Ebraiche, riassumendo in poche parole la propria identità letteraria. Considerato uno dei maggiori scrittori israeliani, Appelfeld nacque nel 1932 nei pressi di Czernowitz, nella Bucovina del nord, allora Romania e oggi Ucraina. I genitori erano ebrei secolari, che guardavano a se stessi con una visione cosmopolita. I suoi nonni invece – come raccontò lui stesso – erano ebrei osservanti, contadini che costruirono una sinagoga sui i loro terreni. La sua vita cambiò nel 1941 quando l’esercito rumeno, alleato dei nazisti, riconquistò la sua cittadina, Jadova, dal controllo sovietico. Sua madre e sua nonna furono assassinate. Appelfeld invece riuscì a scappare con il padre ma dopo poco entrambi furono catturati e deportati in un lager in Transnistria, dove furono separati. A nove anni si trovò da solo ma riuscì ad avere la forza di fuggire di nuovo, trascorrendo due anni a nascondersi nella foresta, svolgendo i più strani lavori per un gruppo di prostitute e di ladre. Quando l’esercito sovietico avanzò nuovamente, nel 1944, si unì all’Armata Rossa, lavorando nelle cucine, e percorrendo la sua personale strada dall’Italia e dalla Jugoslavia, verso il futuro Stato d’Israele (dove arrivò nel 1946). Nei suoi libri raccontò l’esperienza di essere un bambino solo al mondo, del tempo passato a raccogliere frutti da mangiare, a trovare riparo per dormire, a lavorare per criminali ucraini che non sapevano fosse ebreo e comunque lo trattavano come uno schiavo, pur permettendogli di sopravvivere. Più tardi incontrò una prostituta che gli diede riparo per cinque mesi e che più tardi divenne un personaggio in Blooms of Darkness. Nel 1960 scoprì che anche suo padre era sopravvissuto alla Shoah, ricongiungendosi a lui dopo anni di silenzio. In Israele, tra i 13 e 14 anni Appelfeld iniziò ad imparare la sua nuova lingua madre, l’ebraico. “Fu faticoso”, confessò in in diverse interviste ma gradualmente il ragazzino che a lungo fu costretto al silenzio dal mondo attorno a lui, riuscì a padroneggiare la nuova lingua in cui inizierà a scrivere tutte le sue opere. Un tema centrale anche in una successiva intervista di Daniela Gross, sempre per il giornale dell’ebraismo italiano. “Una delle sue grandi paure, ha scritto, è quella di perdere l’ebraico. Al punto da sognare spesso di ritrovarsene privato. Perché questo timore?” chiedeva Gross allo scrittore. “Perché – rispondeva Appelfeld – è una lingua che ho acquisito da ragazzo, non ci sono nato. La lingua acquisita devi sorvegliarla tutto il tempo perché non vi penetri nulla di straniero. L’ebraico è ormai la mia lingua materna. Sogno e scrivo in ebraico. Ma ancora oggi ho paura che se ne vada. Talvolta mi sveglio e questo ebraico imparato con tanta fatica svanisce, scompare. Voglio afferrarlo ma non ci riesco”. Una lingua comunque in costante evoluzione, diversa da quella che aveva appreso in gioventù. “Ci sono molto slang e localismi – rifletteva lo scrittore – ma non potrebbe essere altrimenti. Ogni generazione esprime un suo ritmo nella lingua, toglie o aggiunge qualcosa. E poiché Israele è un grande crogiolo di popoli e di culture questa mescolanza si percepisce in modo significativo. Ma non vi è nulla di negativo in tutto ciò. È un pluralismo linguistico che apprezzo molto. Non credo che la lingua vada preservata in una sua fissità: è bello veder convivere tanti suoni e tante sfumature”. Appelfeld è stato per molti suoi contemporanei un maestro, un ineguagliabile punto di riferimento. Ha detto di lui Philip Roth: “Il suo soggetto letterario non è l’Olocausto, né la persecuzione ebraica. Né, a mio avviso, ciò che scrive è semplicemente narrativa ebraica o israeliana. Né, essendo cittadino ebreo di uno Stato ebraico composto in gran parte da immigrati, la sua è una narrativa dell’esilio. E, nonostante l’ambientazione europea di molti dei suoi romanzi e gli echi di Kafka, questi libri scritti in lingua ebraica non sono certo narrativa europea. Infatti, tutto ciò che Appelfeld non è si aggiunge a quello che è, ovvero uno scrittore disarticolato, uno scrittore deportato, uno scrittore espropriato e sradicato. Appelfeld è uno scrittore sfollato di una narrativa sfollata, che ha fatto dello sfollamento e del disorientamento un soggetto unico nel suo genere”. Unica come il soggetto, la testimonianza di Appelfeld nasce per Roth “in una coscienza ferita, che si trova da qualche parte tra amnesia e memoria”. Tra i tanti riconoscimenti, Appelfeld vinse nel 1983 il prestigioso Premio Israele per la letteratura. “Il suo lavoro e la sua memoria saranno sempre di benedizione” le parole con cui l’ha salutato il Presidente israeliano Reuven Rivlin, che gli era molto amico.
Pagine Ebraiche, febbraio 2018