Periscopio – Qualche sentiero
“Prevedo la spoliticizzazione completa dell’Italia: diventeremo un gran corpo senza nervi, senza più riflessi. Lo so: i comitati di quartiere, la partecipazione dei genitori nelle scuole, la politica dal basso… Ma sono tutte iniziative pratiche, utilitaristiche, in definitiva non politiche. La strada maestra, fatta di qualunquismo e di alienante egoismo, è già tracciata. Resterà forse, come sempre è accaduto in passato, qualche sentiero: non so però chi lo percorrerà, e come.”
Queste parole di Pier Paolo Pasolini, a distanza di più di quarant’anni, sembrano oggi terribilmente profetiche. Ma, a ben guardare, la condizione di oggi del nostro Paese è ben più grave e disperata di quanto potesse apparire, a suo tempo, al grande poeta e testimone. Pasolini, infatti, nella sua grande generosità e nobiltà d’animo, aveva un’idea alta della politica, intesa come percorso civile di formazione, promozione, redenzione umana. La politica era per lui la comunanza della ‘polis’, il senso della solidarietà e della comunanza come obbligo etico, la consapevolezza della condivisione di un comune destino. Al di là della necessaria e fisiologica dimensione del conflitto, dell’imprescindibile divisione e contrapposizione nelle scelte, la parola ‘politica’ aveva per lui un significato sempre intrinsecamente positivo, riconducibile all’antica visione aristotelica dell’uomo come “zòon politikòn”, alla concezione ciceroniana secondo cui gli “homines” sono stati “hominum causa generatos”, tutti gli uomini sono stati creati al servizio degli altri uomini. La politica, per lui, era qualcosa che unisce, che fa riconoscere la propria immagine nei propri simili, il contrario del rifiuto di Caino (“sono forse il custode di mio fratello?”): era sinonimo di umanità, di solidarietà, e nell’assenza della politica vedeva il raggelante vuoto di una comunità di uomini soli, messi insieme chi sa da chi, chi sa perché, chi sa per fare cosa. Un deserto fatto di nulla, di assenza e di silenzio.
Ma questa politica, di cui Pasolini temeva la fine, è ormai talmente morta e sepolta che perfino i più anziani hanno dimenticato che un tempo è esistita, e che qualcuno ci ha creduto, ci ha sperato. Ma la cosa più desolante è che la sua scomparsa non ha lasciato il nulla, l’assenza e il silenzio che vedeva e sentiva Pasolini, ma qualcosa di ben diverso. Il rumore disarticolato e confuso di una danza macabra, il vociare senza senso proveniente dal “Danubio percorso da battelli carichi di folli che vanno verso un luogo oscuro”, ascoltato, alla fine della sua vita, da Adso da Melk. Dove sono, oggi, “i comitati di quartiere, la partecipazione dei genitori nelle scuole, la politica dal basso”? Magari ci fossero! E “il qualunquismo e l’alienante egoismo”, denunciati da Pasolini, sono diventati qualcosa di ben diverso. Prima erano dei difetti, delle deviazioni, magari sottovalutati, trascurati o tollerati, ma comunque comunemente considerati come dei disvalori. Oggi sono eletti a virtù, a vessillo del “nuovo che avanza”, a simbolo sprezzante della fine senza appello del vecchio mondo, che deve morire sotto una montagna di insulti e di sputi.
La politica, di cui Pasolini lamentava la morte, non ha diritto, oggi, neanche a una onorata sepoltura, e chi ne cerchi, invano, la tomba, per poggiarvi sopra un fiore, o un sasso, sarà segnato da scherno e disprezzo.
E non c’è nessun sentiero da cercare. Nel deserto, che credeva di vedere Pasolini, ci si poteva forse illudere che alcune pietre indicassero una direzione, un percorso, e che un Ulisse, un Enea o un Giasone potessero mettersi, un giorno, in cammino. Ma in quell’immensa discarica che è diventata l’Italia di oggi, è impossibile. I sentieri, se esistono, sono sepolti sotto tonnellate di rifiuti. E le ceneri di Gramsci si sono disperse nel nulla, si è perso anche il ricordo del ricordo.
Francesco Lucrezi, storico