Invisibile in Mosul
Il cielo plumbeo e nero di petrolio copre e avvolge un territorio arido e devastato, i pozzi bruciano, fatti saltare dall’ISIS in fuga. «Ecco dove vogliamo andare», dice la voce narrante, che è il giornalista Itai Anghel, e lo dice in una delle primissime inquadrature del reportage “Invisibile in Mosul”. Spazio Oberdan, Milano, undicesima edizione della Rassegna Nuovo Cinema Israeliano (prodotta dalla Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea in collaborazione con la Fondazione Cineteca Italiana e il Centro Ebraico Il Pitigliani di Roma; a cura di Nanette Hayon e Anna Saralvo, direzione artistica Ariela Piattelli e Lirith Mash, responsabile scientifico Sara Ferrari).
Dopo la proiezione, ho la fortuna di essere chiamato dal CDEC a intervistare – meglio sarebbe dire chiacchierare con – Itai. Persona straordinaria. Alto alto, magrissimo, occhi blu, una giovane moglie etiope bella e simpatica. È conosciutissimo (non da noi, ovvio), eppure non se la tira minimamente, anzi, diciamo che vive e lavora con l’umiltà di chi dice spinozianamente «lo faccio per capire».
Itai Anghel è un reporter dello staff di Uvda, programma di news di Channel 12 (Keshet), tiene anche corsi all’Università di Tel Aviv sui conflitti nel mondo. «Ecco dove vogliamo andare» lo ha portato, tra l’altro, in Croazia, Bosnia, Russia, Lituania, Georgia, Azerbaijan, piazza Tahrir al Cairo, Rwanda, Yugoslavia, Pakistan, Afghanistan, Etiopia, Siria, Iraq. E naturalmente ha “coperto” l’intifada al-Aqsa a Ramallah, Nablus, Jenin. Non soltanto guerra però. «Ecco dove vogliamo andare» lo ha catapultato per esempio a Haiti durante il terremoto o nel profondo Congo insieme a un team di ginecologi israeliani che aiutava e curava soprattutto donne violentate. Dimenticavo: nel 2017, con “Invisibile in Mosul”, Itai ha vinto il Premio Sokolov, il più esclusivo degli attestati giornalistici del suo paese.
Quando gli si fa notare che se già il giornalismo di guerra necessita – diciamo così – di un certo coraggio, praticarlo in Medio Oriente e in specie in zona ISIS da reporter israeliano e ebreo fa venire un po’ i brividi giù per la schiena, lui sorride: «Preferivo essere sotto il fuoco degli jihadisti… così almeno i miei compagni di blindato avevano altro a cui pensare che chiedermi “da dove vieni?”, “chi sei?”».
Ma “Setirot” non è spazio da cronache né interviste, e quindi veniamo al dunque. Ovvero al che cosa c’è dietro a quel «ecco dove vogliamo andare». C’è la convinzione «vista, conosciuta, toccata con mano, respirata» che le donne e gli uomini sono mille e mille volte meglio delle proprie leadership, che non vogliono né uccidere né morire, e soprattutto che non vivono le religioni con fanatismo, estremismo, violenza. Tesi, gli si fa notare, che cozza con ciò che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno. E qui Itai – vorrei dire “finalmente” – alza la voce. È convinto, convintissimo che se il mondo conoscesse veramente le situazioni e i sentimenti, la vita della stragrandissima maggioranza dell’umanità capirebbe quanto falsa sia la rappresentazione che della realtà dà chi è interessato soltanto a mantenere il proprio potere corrotto. «E che cosa c’è di meglio, di più facile, per mantenere quel potere, che seminare paura a piene mani?». Ecco il vero perché del suo “voler andare”. Per cercare di regalarci un minimo di realtà. Coprire, almeno per i 55 minuti di un reportage, il frastuono mortifero e devastante delle urla gridate da «imam e rabbini e qualsivoglia guide religiose invasate e fanatiche o da capi politici, spesso dittatori, che vogliono convincerci che al di là del nostro confine esiste solamente il male che vuole annientarci… succede così anche nel mio Israele».
Scorrono le immagini, la macchina da presa segue spesso bambine e bambini, senza alcun cedimento al lacrimevole. Sono loro la nostra speranza? Itai (poco prima mi aveva raccontato di volere presto un figlio) ci guarda con quei suoi occhi blu sorridenti e tristi, senz’altro disincantati. E fa no con la testa. Perché moltissimi di quei bambini e di quelle bambine crescono sotto i bombardamenti o scappando nei rifugi, «e come vuoi che diventino?, quanta rabbia avranno in corpo per avere perso la mamma il papà un fratello un nonno una persona amata?». E la paura perpetrerà per chissà ancora quante generazioni il potere immondo di chi questo terrore lo alimenta e lo provoca.
Continua ad andare, coraggioso e dolce Itai. Che Dio – il Dio in cui dici di «credere nonostante tutto» – ti benedica e ti protegga.
Stefano Jesurum, giornalista
(15 marzo 2018)