Machshevet Israel – Olam ha-bà, immortalità e resurrezione

massimo giulianiPresentando al Centro Pitigliani il trattato Berakhot del Talmud Babilonese, recentemente pubblicato da Giuntina, rav Gianfranco Di Segni ha esplorato la pagina 18b affrontando il tema ‘inattuale’, raramente elaborato fuori dalle aule accademiche, della fede nel mondo futuro secondo il giudaismo: l’‘olam ha-bà, alla lettera ‘il mondo che viene’. Chi ha familiarità con le fonti rabbiniche sa che si tratta di un tema che ai maestri sta a cuore, con un posto significativo tra le credenze ebraiche, più significativo della stessa fede messianica. Almeno fino alle soglie dell’epoca moderna. Inoltre i riferimenti al tema della resurrezione dei morti sono centrali nella tefillà, dove Ha-Shem è chiamato Mechajè ha-metim, Colui che fa tornare in vita i morti. La predetta pagina talmudica invero si interroga (aggadicamente) sull’esistenza o meno di rapporti tra vivi e morti, tra questo e l’altro mondo. E più avanti nel trattato, alla pagina 34b, si affronta l’ancor più delicato tema della ricompensa nel mondo a venire ovvero della dottrina della retribuzione, dottrina che, nell’architettura teologica della fede ebraica, occupa un posto ancor più grande, perché coinvolge e presuppone una dottrina dei meriti umani e il principio del libero arbitrio ovvero della libertà di scelta morale, senza la quale non possono darsi meriti.
Ho detto che la modernità ha relegato queste dottrine in secondo piano rispetto ad altri elementi del giudaismo. Ma il pensiero ebraico è pensiero proprio perché raccoglie anche i frammenti, non dà pace e non è ‘in pace’ con le mode, anche quelle intellettuali, soprattutto non vuol perdere per strada alcun aspetto significativo della complessa identità ebraica. Non è un caso dunque che un filosofo come Hans Jonas (che pure si è occupato di bioetica e delle attualissime sfide ambientali e demografiche) abbia a lungo ragionato in materia di mortalità e immortalità dell’essere umano; o che uno straordinario scrittore-filosofo come Elias Canetti abbia tenuto, dal 1942 al giorno della sua morte (1994) un ‘diario’ di aforismi e riflessioni che intitolò “Il libro contro la morte”, uscito in italiano solo l’anno scorso, nel quale leggiamo – una citazione tra tutte – “l’uomo è eterno fin che ha a che fare con ciò che è eterno – sempre che non ci affoghi” (poi confluita con altri materiali nel volume “La provincia dell’uomo”, tradotta da Furio Jesi nel 1973). È un pensiero molto maimonideo: per il Rambam infatti l’anima dell’uomo non è né mortale né immortale, piuttosto ha la capacità di diventare immortale, a certe condizioni. Un dinamismo sorprendente, che stimola ad agire per innalzarsi intellettualmente onde conseguire questa ‘immortalità spirituale’. In materia di pensiero ebraico sull’al di là, sul rapporto tra età messianica e ‘olam ha-bà, tra immortalità e ressurrezione il rimando a Maimonide è fondamentale.
Nell’introduzione al X capitolo di Sanhedrin (il Pereq cheleq), nelle Hilkhot ha-teshuvà e nel suo trattato “sulla resurrezione dei morti” (scritto in risposta alle accuse di non credere in questo ‘dogma ebraico’), il Rambam fa chiarezza tra tante aggadot e credenze popolari su paradiso e inferno, punta all’essenziale: il mondo a venire è riservato alle anime dei giusti, è tutto spirituale e nulla possiamo dire di esso; altra cosa è l’età messianica, che appartiene ai “giorni ultimi” ma nella storia. Mentre è intuibile e naturale che l’anima, essendo spirituale, non muoia, circa la resurrezione dei morti – che naturale non è – dobbiamo ricorrere alla categoria del ‘miracolo’: essa, scrive il Rambam, “è uno dei tanti miracoli [di Ha-Shem] e risulta chiarissima, nel senso che la cosa è di per sé comprensibile e non si deve far altro che credervi, conformemente a quanto tramandatoci dalla tradizione autentica. Essa non è suscettibile di dimostrazione razionale, ma, seguendo il corso di tutti gli altri miracoli, ha come unico supporto la forza della tradizione” (tr. di rav Giuseppe Laras z.l.). Già in Berakhot 34b si discute su cosa significhi che “i profeti profetizzarono solo sull’età messianica” e se le ricompense, che seguono i meriti dei giusti, siano date nell’èra messianica, ossia in questo mondo, oppure nel mondo futuro. Nell’immaginare questa ricompensa, Rabbi Yehoshua ben Levi dice che si tratta “del vino che è stato conservato nella sua uva sin dai sei giorni della creazione”. È un’immagine bellissima, perché ki-vijakol chiude il cerchio tra l’inizio e la fine, riporta l’umanità giusta in seno al creato (animali e piante) incorrotto così come Dio l’aveva pensato be-reshit. La ricompensa, che sia in questo mondo o nell’altro, è il recupero del progetto originario del Creatore sul mondo nella sua pienezza fisica e morale. Il filosofo e amico Mino Chamla ha ripreso così l’immagine di Isaia 11: “Sarà il giorno del leone vegetariano ossia il massimo della forza con il massimo dell’etica”. Per ora, quel giorno resta appeso alla fede o meglio alla speranza, che nel giudaismo di fatto convergono.

Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI