Il lavoro di Erdogan

bassano“Via da Afrin soltanto quando il lavoro sarà finito” ha esordito il presidente turco Recep Erdogan in risposta alla richiesta da parte dell’Europarlamento di ritirare le proprie truppe dall’enclave curda. Quel “lavoro” di cui parla Erdogan, ha procurato fino ad oggi la morte di almeno 4.000 persone in poco più di un mese, il bombardamento di ospedali e altri luoghi civili, e migliaia di sfollati che in questa area avevano trovato rifugio dopo la fuga dalle altre zone siriane sotto il controllo di Assad, di Daesh e dei “ribelli”. L’obiettivo per il regime turco non è la difesa dei propri confini “minacciati”, ma quello di “liberare” e mettere in un modo o nell’altro sotto il proprio controllo la regione curda del Rojava che si estende sino ai confini dell’Iraq. La situazione nel resto del paese è altrettanto drammatica, specie nella regione del Ghouta, per un conflitto che solo in Siria in sette anni ha causato oltre mezzo milione di vittime, quasi otto milioni di “deportati interni” e sei milioni di rifugiati, e non accenna in nessun modo a concludersi. Numeri privi di storie e di volti, ma che superano di gran lunga le vite perdute nelle guerre jugoslave durate dieci anni, quelle delle due guerre cecene, quelle della guerra civile in Algeria, o quelle in settant’anni perse nelle guerre e nel conflitto arabo-israeliano. Guerre e conflitti che hanno sempre mobilitato il mondo e la comunità internazionale per spingere le parti al “cessate il fuoco”. Nessuna guerra o violenza è accettabile, ogni vita ha lo stesso valore e non è riducibile a delle cifre, sembra banale continuare a ripeterlo ma è così. Forse è proprio questo pensare che si tratti di “banalità” l’idea di un mondo senza guerre, il non riconoscere ufficialmente dei supposti “buoni” o “cattivi” per cui parteggiare, o queste emergenti concezioni protezionistiche ed esclusivistiche tendenti a credere il nostro bene superiore a quello altrui che continueranno a farci chiudere i nostri occhi sulla tragedia siriana. Distratti da chissà che cosa.

Francesco Moises Bassano