L’aria che tira
Il risultato elettorale consegnatoci dalle urne il 4 marzo scorso allinea, per così dire, l’Italia al trend che sta accompagnando buona parte dei Paesi a sviluppo avanzato, Stati Uniti compresi. C’è oramai un blocco continentale, che trova oltre Atlantico, nella presidenza statunitense un qualche elemento di corrispondenza (ma ancora più con la Russia di Putin, che si avvia al quarto mandato), e che si connota per alcune caratteristiche specifiche: enfatizzazione delle sovranità nazionali, richiamo alle identità etnico-territoriali, protezionismo economico, rifiuto dei processi migratori o, quanto meno, di una parte dei loro effetti. Continuare a parlare di «populismo», di «antipartitismo» o, addirittura, di «forze antisistema» per definire quel variegato, eterogeneo e articolato insieme di gruppi, liste, movimenti e finanche partiti, oltre che di personaggi pubblici, che stanno raccogliendo il consenso degli elettori, implica il non riuscire a capire quale sia il segno del mutamento. Ovvero, in quali direzioni stia andando, quanto meno sul piano politico. Senz’altro vi sono elementi populistici nelle affermazioni e nelle proposte di questi soggetti. Ma il pensare e l’agire in termini “populistici” in realtà sono delle modalità di vivere la politica nel momento in cui essa ha perso di rilevanza nell’arena delle decisioni. Oggi, infatti, i luoghi e gli attori del potere sono altrove, essendo stati ridefiniti e ricollocati dai percorsi di globalizzazione che da circa quarant’anni accompagnano lo scenario internazionale. Le democrazie nazionali – quindi – ne risultano svuotate, dovendo perlopiù subire fenomeni complessi, che intervengono sulle collettività, ne determinano gli indirizzi di fondo, ne mutano anche la composizione sociale senza che gli organismi elettivi della rappresentanza, a partire dai parlamenti, possano a loro volta intervenire con decisioni di chiaro impatto e di sicuro effetto. Anche da ciò, quindi, il fenomeno delle «democrature», di cui la Russia di Putin e la Turchia di Erdogan sono un chiaro esempio: sistemi politici sì elettivi, e in parte ancora rappresentativi, ma senza i contrappesi costituzionali del pluralismo democratico ed istituzionale. Soprattutto, nazioni dove la funzione politica è concentrata di fatto negli esecutivi. Una parte dei paesi del cosiddetto «Gruppo di Viségrad» si sta disponendo in tal senso. Le recenti manifestazioni polacche sul merito della memoria nazionalista (e nazionalizzata) di Auschwitz, sono solo un piccolo indice culturale di processi ben più ampi, dove il ritorno dell’identità nazionale cerca di fare fronte alla crisi delle appartenenze sociali e dei ruoli economici di un grande numero di persone. Anche in questo caso, è meglio non indulgere in immediate semplificazioni: il voto alle formazioni politiche nazionaliste e sovraniste non deriva necessariamente da un mero disagio economico ma da una più complessa condizione di percezione di perdita del proprio status e delle certezze, così come delle prevedibilità, che ad esso si accompagnavano fino ad un certo numero di anni fa. Ne fanno testo la Germania e l’Austria, per intenderci. Quello che si può senz’altro affermare in una età – la nostra – dove il malcontento e l’incertezza sono due elementi dominanti (e motivanti sul piano della scelta elettorale), è che nessuna battaglia politica che prescinda da una piena riconsiderazione dei diritti sociali può avere qualche chance di successo. Diritti politici, civili e sociali devono costantemente intrecciarsi. Poiché gli uni non possono esistere in assenza degli altri e tanto meno surrogarli. Se i diritti civili rimandano anche all’identità individuale, quelli sociali sono più strettamente legati al ruolo redistributivo della ricchezza collettivamente prodotta dalle comunità nazionali. Senza agire su quest’ultimo perno, che a sua volta richiama un orizzonte continentale se non internazionale, sarà inevitabile il continuare a registrare i successi di quelle formazioni politiche che al conflitto sociale sostituiscono quello etnico.
Claudio Vercelli
(18 marzo 2018)