Via Fani 40 anni dopo
Come tutte le celebrazioni, tutte le commemorazioni, tutti gli anniversari di qualsiasi avvenimento tragico e doloroso, di ogni vicenda di dolore, morte, riscatto, segnata da lacrime, sangue, lutto, che abbia segnato la storia del nostro Paese, in nome della quale gli uomini sarebbero chiamati a unirsi in un momento di raccoglimento, di silenzio, di memoria, di solidarietà, di compassione – dalla liberazione di Auschwitz alla strage di Bologna, da Marzabotto al 25 aprile, dalle Fosse Ardeatine alle Torri Gemelle -, anche il quarantennale dell’eccidio di via Fani ha offerto l’occasione, puntualmente, ad alcuni nauseabondi ectoplasmi che infestano i bassifondi delle nostre città di ricordarci che esistono, che ci sono ancora, e non hanno alcuna intenzione di ritirarsi, di andare in pensione. La vita umana si è allungata, e, se a settanta o ottant’anni ci si può ancora fidanzare e sposare, si può anche, a quell’età, giocare a fare i ‘duri’, i ‘guerriglieri’, quelli che, da soli, fanno tremare il mondo (come si diceva, in tempi lontani, della squadra di calcio del Bologna), non fanno dormire tranquilli i bambini e le vecchiette.
Certo, purtroppo per loro, i tempi sono un po’ cambiati: quarant’anni fa, i pistoleri avevano le prime pagine di tutti i giornali del mondo, si parlava di loro anche in Cina e in Giappone, i loro sgrammaticati comunicati erano oggetto di analisi filologiche e linguistiche degne dei versi di Dante e Petrarca, l’opinione pubblica veniva nettamente divisa dalle loro gesta in divisioni e contrapposizioni che loro si divertivano un mondo a creare, alimentare, moltiplicare: gli ammiratori proletari, i nemici borghesi, i benpensanti impauriti, gli incerti e confusi, quelli della fermezza, quelli della trattativa, quelli del “vorrei non posso”, del “potrei ma non voglio” ecc. Oggi, le ex star si devono accontentare di raccattare un po’ di pubblico di sfigati in qualche fumoso sottoscala, e, per ottenere qualche riga sulle pagine interne di qualche quotidiano, non gli basta dire “ehi, c’ero anch’io!”, ma devono spararla grossa, in modo – se non da terrorizzare le masse, come quarant’anni fa -, almeno da scuoterle un po’ dal loro torpore, da indurre qualcuno, seduto in poltrona a leggere il giornale, tra un commento al campionato di calcio e uno alle trattative per il nuovo governo, a dire alla moglie: “ehi, senti questa! ma guarda un po’…”.
Alcuni di loro, però, bisogna riconoscerlo, sono piuttosto bravi, e, come ieri avevano buona mira nello sparare alle spalle o nel trucidare prigionieri ben legati, oggi ce l’hanno ancora buona a colpire con lo sputo la sensibilità della gente. Questa, per esempio, dei parenti delle vittime che svolgerebbero una sorta di ‘mestiere’, godendo di una rendita di posizione che permetterebbe loro di parlare, di essere intervistati, di diventare ‘opinion makers’ senza avere mai fatto niente – nessun concorso vinto, nessun cartellino da timbrare, nessuna specifica competenza; mentre loro, com’è noto, si sono impegnati, hanno sudato e faticato -, è decisamente azzeccata. Dire che gli orfani e le vedove si sono meritato quello che hanno avuto, perché essere figli e mogli di poliziotti, giornalisti, giudici, politici è una colpa meritevole di punizione, sarebbe stato troppo ‘cattivo’, e il male, com’è noto, quando è gratuito e sadico, diventa banale e noioso; dire semplicemente che la storia deve fare il suo corso, e che, come sempre, qualcuno deve pur restarne schiacciato, o ammaccato, sarebbe stato troppo ovvio e risaputo, è già stato detto molte volte; dire, poi, che loro hanno sì combattuto e ucciso, ma gli dispiace del dolore arrecato, per carità, non scherziamo proprio: per chi non lo avesse ancora capito, loro sono i ‘duri’, quelli che non arretreranno mai, neanche di un millimetro.
Quella piccola zeppatina, buttata là quasi per caso, “en passant”, maligna e strisciante, cinica e obliqua, perfida e sottile, andava proprio bene, è riuscita davvero a insinuare il sospetto che, dentro un guscio di malvagità, celasse anche un piccolo bozzolo di verità: andare in televisione, sia pure una volta ogni tanto, non è forse gratificante? non è forse comodo avere comunque un’identità, essere riconosciuti, ogni tanto, per strada o al supermarket, come “il figlio di…”, “la moglie di…”? Loro, i ‘cattivi’, sono famosi per avere fatto qualcosa, mentre gli altri, i ‘buoni’ (ma chi l’ha detto, poi, che lo siano?) non hanno fatto assolutamente niente, la loro è una notorietà abusiva, assistenzialistica, una sorta di privilegio di casta. In fondo, siamo tutto un po’ vittime, non solo loro, anche qui ci vorrebbe una specie di “reddito di cittadinanza”.
Complimenti, Signora. Sono certo che se, tra cent’anni, Lei dovesse intravedere, dal profondo dell’inferno, sbirciando ai piani alti, qualcuno dei ‘mestieranti’, nel cielo delle vittime, troverebbe la forza di gridargli: “ehi, tu! Non sono mica pentita, sai? Io sono una dura!”. Ma non accadrà. L’inferno non esiste, e neanche il paradiso. E comunque, se esistesse, certamente non comprenderebbe quel cielo. Le vittime, e i loro familiari, abitano per sempre in un luogo lontano, solo per loro, fatto di solitudine e di silenzio, nel quale Lei, per loro fortuna, per quanto possa urlare, non entrerà mai.
Francesco Lucrezi
(21 marzo 2018)