JCiak – Danzando con il destino

Quando apre la porta, a Dafna basta uno sguardo per capire. I due ufficiali portano notizie di morte: suo figlio Jonathan, soldato, è stato ucciso. La donna sviene, il marito Michael sprofonda nel silenzio e il lutto si dipana nel suo lacerante orrore. La prima scena di Foxtrot, da oggi al cinema, è un pugno nello stomaco che il resto del film non si preoccupa di smentire. L’ultimo lavoro di Shmuel Maoz, Leone d’Argento a Venezia, è un film forte, brutale, che scaraventa lo spettatore lì dove non vorrebbe mai trovarsi. Un film che affonda lo sguardo sulla tragedia di due genitori per raccontare il dolore collettivo di un’intera nazione costretta ogni giorno a convivere con la morte.
Articolato in tre atti da tragedia, Foxtrot muove i primi passi nel chiuso del magnifico appartamento di Dafna (Sarah Adler) e Michael (Lior Ashkenazi). Mentre lei viene sedata e messa a letto, lui fa i conti con la piena di un dolore che monta incontrollabile. Ashkenazi dà corpo al lutto nel silenzio di primi piani che stringono sul suo viso seguendone le impercettibili sfumature. La bellezza degli ambienti modernisti, arredati con gusto e affollati di libri, non fa che accentuarne la devastazione in un rimando claustrofobico a tratti insopportabile.
È il secondo atto a condurci fuori da quella porta, fino al remoto checkpoint dove Jonathan è di guardia insieme ad altri tre giovani. I soldati non hanno molto da fare. Alzano e abbassano la sbarra per far passare le rare macchine o un cammello impigrito. Di notte, alla luce di un potente riflettore, controllano i documenti. Per il resto, fanno quel che si fa a quell’età quando ci si sottrae allo sguardo degli adulti: ridono, ballano, ascoltano musica, giocano.
Sono scene di un’intensa bellezza, a tratti stranianti, incastonate in un paesaggio desertico dove i sogni e le speranze sembrano correre liberi. Solo nell’atto finale la realtà reclamerà la sua parte e la verità si mostrerà beffarda in uno scherzo crudele del destino.
Foxtrot ha fatto molto discutere. All’indomani del Leone d’Argento, la ministra della Cultura israeliana Miri Regev l’aveva attaccato perché calunnioso per l’esercito. Qualche mese dopo, era tornata alla carica ritirando il supporto al prestigioso Festival del cinema israeliano a Parigi, reo di presentarlo nella serata inaugurale alla presenza del regista.
Nechama Rivlin, moglie del presidente, l’aveva definito invece “pieno di compassione”. “Quando vedi i soldati seduti nella loro postazione – aveva detto – pensi solo che vorresti che ognuno di loro fosse tuo figlio e vorresti abbracciarlo. Quanto all’orribile esplosione nel finale, Shmulik Maoz ha usato qualcosa di estremo e drammatico per esprimere la difficile situazione in cui viviamo”. “È inconcepibile – ha concluso – che qualcuno possa pensare che sia realmente successo”.
Comunque la si pensi, è un film che vale la pena di vedere. Se possibile con la mente sgombra dai pregiudizi.

Daniela Gross