Tecniche di sopravvivenza
“Zweig sedeva nel vano della finestra e guardava fuori ma non vedeva Haifa. Vedeva più lontano. La lingua tedesca sua e di Moshé era evidentemente qualcosa di molto speciale. Nell’isolamento della Terra d’Israele avevano vagliato bene quella lingua, ne avevano eliminato ogni inciampo. Zweig ascoltava, sulle onde corte della radio, le trasmissioni dalla Germania, si annotava le espressioni sconce, la cosa che lo irritava più di ogni altra era il vedere ciò che quei mascalzoni avevano fatto contro la lingua. […] Nella città di Haifa degli anni Quaranta, sul Monte Carmelo, sedevano l’uno accanto all’altro il direttore di un museo ebraico oriundo della Galizia e uno scrittore ebreo-tedesco perseguitato, e tenevano in vita la lingua tedesca, la salvaguardavano, la corteggiavano, la salvavano da se stessa, si gingillavano con i suoi tesori nascosti, ne piangevano le deviazioni, tentavano di capire la grammatica interiore della lingua hitleriana per sradicarla e restituirla poi, a suo tempo, al legittimo proprietario. Stavano, là, abbracciando una lingua che li aveva traditi, che aveva buttato fuori Zweig, che lo voleva morto.”
Questa scena è tratta da un bel libro autobiografico di Yoram Kaniuk del 1982, “Post Mortem” – purtroppo fuori edizione -, che racconta la Tel Aviv degli anni venti e quaranta, quella dei primi immigrati, in gran parte provenienti dalla Germania nazista. Il Moshé che compare accanto ad Arnold Zweig, il quale al tempo si rifugiò provvisoriamente in Palestina per sfuggire alle persecuzioni, è il padre dell’autore. Il passo citato racconta quello che per Zweig fu paradossalmente un doloroso “esilio” in una terra “straniera”, e quindi il rapporto di odi et amo tra gli ‘olim e la diaspora, sul quale s’incentra gran parte del romanzo. Ma come si può continuare ad amare una cultura che in qualche modo si è rivelata traditrice? Lo Zweig descritto da Kaniuk considera il nazismo un incidente di percorso all’interno della storia e della cultura tedesca, una vera e propria corruzione di un qualcosa che percepisce come proprio, e in parte come “ebraico”. “Cos’è poi l’ebraismo se non una tecnica di sopravvivenza in posti diversi? […] la facoltà di rimanere di passaggio, né qui ne là, avulsi, senza mai scendere a compromessi” continua Kaniuk nelle stesse pagine. Un’identità che non sarebbe mai pura, ma sempre “mista”, con radici in ogni luogo. Di fronte all’Europa in macerie, Arnold Zweig e Moshé Kaniuk si sentono i “veri” custodi della cultura tedesca, un po’ come quei monaci cristiani o ministri di culto islamici che di fronte a orde di “barbari” o terroristi mettono al riparo antichi manoscritti. Poco più a Nord, negli stessi anni, a Istanbul si era rifugiato il filologo ebreo Erich Auerbach, dove ricercando in biblioteche poco fornite di opere europee, scriverà Mimesis, un saggio critico sul realismo nella letteratura occidentale, elencando e analizzando una ventina di opere dall’Odissea fino a Marcel Proust. Vi ho sempre scorto un tentativo, come per altri intellettuali che all’epoca espatriarono nelle Americhe, di ricordare e salvaguardare una civiltà caduta nelle tenebre, in attesa di tempi migliori, per restituirla, appunto, poi ai posteri, all’intera umanità.
Francesco Moises Bassano
(23 marzo 2018)