In esordio
La nuova legislatura si inaugura con l’elezione della presidenza delle due Camere. Non è ancora chiaro con chi e con quali numeri si costituirà l’esecutivo e tuttavia è auspicabile che chiunque sia chiamato a governare possa farlo con la pienezza del mandato poiché non ci sarebbe nulla di peggio di un Paese lasciato a sé. L’orizzonte problematico, infatti, non è dato solo dagli uomini, dallo stile e dai contenuti di un programma di governo ma anche e soprattutto dalla loro assenza. Gli anni prossimi, infatti, saranno decisivi per le sorti dell’Unione Europa di cui l’Italia è partner fondatore ma soggetto politico di minoranza, incidendo poco nelle sue dinamiche. Dallo sgretolamento della costruzione comunitaria non potranno che derivare danni per molti. Non per tutti, beninteso. Poiché da tempo un ampio e variegato insieme di forze, presenti un po’ in tutte le nazioni continentali (ed anche al di fuori di esse, in questo caso avendo fatto un preciso calcolo geopolitico, che intende avvantaggiarsi della netta riduzione di forza contrattuale per i paesi europei che da ciò deriverebbe), hanno puntato le loro carte su questo obiettivo. Si tratta di soggetti politici che dalla crisi dell’Unione – la quale nasce da un insieme di fattori ad essa interni, primo tra tutti il non avere accompagnato alla creazione di una moneta unica l’armonizzazione e la concertazione delle politiche economiche – ritengono di avere tutto da guadagnare. Il calcolo è per certuni l’improbabile ritorno alle condizioni precedenti agli anni Novanta, eventualmente trasformando la costruzione europea in una confederazione debole (e rissosa), destinata a contare poco o nulla come soggetto collettivo o a disgregarsi definitivamente qualora, invece, dovesse di nuovo intraprendere un qualche tentativo di rafforzamento. L’improbabilità di questa intenzione sta nel fatto che il ritorno alle piene sovranità nazionali è improponibile allo stato attuale delle cose. I processi di globalizzazione sono troppo avanzati per potere pensare di risolvere i problemi e gli squilibri che essi ingenerano facendo leva sui soli Stati nazionali. Che ciò piaccia o meno. L’Unione Europea è, per molti aspetti, un progetto stanco e sfiancato non per l’eccesso di integrazione ma, piuttosto, per il suo difetto. Non è neanche la questione di una mancata “Costituzione” continentale (quando se ne parlò, in anni ancora recenti, si rasentò spesso la surrealtà, addentrandosi in un ginepraio di definizioni, rivendicazioni di “identità” più o meno improbabili e così via) a pesare quanto, invece, l’assenza di un’Europa sociale, capace di esercitare un’azione redistributiva a livello continentale. Ciò che è avvenuto, quindi, è stato semmai un processo di integrazione diseguale. Nel momento in cui la crisi economica degli anni trascorsi ha colpito i paesi a sviluppo avanzato, le nazioni maggiormente fragili sono state chiamate a fronteggiarne in prima persona gli effetti. L’Unione, che pure ha retto su altri piani, a partire dall’instabilità monetaria e dal rischio bancario, si è dimostrata invece “matrigna” rispetto agli effetti sociali che, come un colpo di frusta, hanno scompaginato paesi quali la Grecia ed in parte la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda. Si è trattato di una vera e propria crisi dei ceti medi, messi alle corde dalle repentine trasformazioni delle condizioni di vita quotidiana. Lo sviluppo e la diffusione di movimenti, gruppi, partiti, liste elettorali che si richiamano alla mancata risposta al disagio diffusosi negli ultimi dieci anni, si alimenta di questo stato di cose. Rispondendo ad esse che se l’Unione si rivela indifferente (o pare essere tale) al disagio, ancorandosi ad atteggiamenti tecnocratici ed elitari, allora la via d’uscita sta nel tornare alle vecchie ricette nazionali, sovrane e identitarie. Si tratta di un’illusione destinata a scontrarsi con l’evoluzione delle cose. Poiché in un mercato globale non è possibile interagire efficacemente all’interno di un fortino. Il livello di interazioni, d’interconnessioni, di scambi e di continua mobilità rende impossibile questa riconfigurazione verso il passato. Rimane il fatto che la comune percezione di una diffusa condizione di diseguaglianza, di un’ingiustizia tanto più bruciante poiché raccolta con indifferenza, di una distanza rispetto alle élite globalizzanti che si fa incolmabile, soffia il vento a favore delle vele dispiegate dai vascelli dei populismi vecchi e nuovi. Siamo entrati in una nuova stagione della politica, quest’ultima assai meno potente e rilevante rispetto al passato nel determinare gli indirizzi dei processi decisionali. Siamo anche entrati, e da tempo, in un’età dove alla Costituzione formale, quella che dovrebbe per davvero essere sovrana nel nostro Paese, si è sostituita una “costituzione materiale” dove i rapporti di forza non corrispondono necessariamente alle norme di diritto sancite dalle leggi supreme. La nuova legislatura, nella speranza che non debba calare da subito i battenti per l’eventuale impossibilità di dare vita ad una coalizione di maggioranza, si dovrà quindi confrontare con questa cornice. Dai cattivi esiti di essa avremmo tutti (e molto) da perderci. Il voto degli italiani è stato sufficientemente chiaro. Vedremo in quale modo verrà utilizzato dalle forze politiche che da esso sono state premiate.
Claudio Vercelli