Periscopio – Le parole di Lauder
In ragione dell’oggettiva gravità del grido d’allarme, e della grande autorevolezza della fonte da cui esso proviene, credo che meriti qualche parola di commento l’accorata denuncia – pubblicata, col titolo “Le ferite autoinflitte di Israele”, sul New York Times, e ripresa su Moked dello scorso 20 marzo – del Presidente del World Jewish Congress Ronald Lauder, secondo il quale sullo Stato ebraico incomberebbero due distinte minacce, entrambe serie e concrete, e di entrambe le quali esso stesso porterebbe, in modo prevalente, se non esclusivo, la responsabilità. Lauder – che ci tiene ad autodefinirsi un conservatore, sostenitore, in Israele, del Likud e, negli Stati Uniti, del Partito Repubblicano, per evitare di essere confuso con i soliti progressisti liberal, tradizionalmente più freddi, o tiepidi, verso il sionismo – mette in guardia da due concreti rischi che potrebbero arrivare, addirittura, a mettere in pericolo, in un futuro più o meno prossimo, la stessa sopravvivenza di Israele. Il primo consisterebbe nell’allontanamento “sine die” della soluzione dei “due Stati per due popoli”, l’unica che permetterebbe un superamento pacifico e negoziato del conflitto. “13 milioni di persone – nota Lauder – vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. E quasi la metà di loro sono palestinesi. Se le tendenze attuali continueranno, Israele dovrà affrontare una scelta difficile: concedere ai palestinesi pieni diritti e cessare di essere uno Stato ebraico o revocare i loro diritti e cessare di essere una democrazia. Per evitare questi risultati inaccettabili, l’unica strada da percorrere è quella dei due Stati”.
Il secondo pericolo sarebbe invece collegato al deterioramento dei rapporti tra Israele e la Diaspora, dovuta a quella che il Presidente definisce una “capitolazione” delle autorità israeliane nei confronti degli “estremisti religiosi”, da cui discenderebbe una crescente disaffezione della diaspora ebraica: “La maggior parte degli ebrei al di fuori di Israele non sono accettati dagli ultra-ortodossi israeliani, che controllano la vita rituale e i luoghi santi nello Stato. Sette degli otto milioni di ebrei che vivono in America, Europa, Sudamerica, Africa e Australia sono modern-orthodox, conservative, reform … o laici. Molti di loro hanno avuto l’impressione, soprattutto negli ultimi anni, che la nazione che hanno sostenuto politicamente, finanziariamente e spiritualmente stia voltando loro le spalle”. E, in ragione di ciò, “un numero crescente di millennials ebrei, in particolare negli Stati Uniti, si sta allontanando da Israele perché le sue politiche contraddicono i loro valori. I risultati non sorprendono: assimilazione, alienazione e una grave erosione del legame tra comunità ebraica globale e la patria ebraica”.
Entrambe le segnalazioni di Lauder scaturiscono da sincera e profonda sollecitudine per le future sorti di Israele, e meritano senz’altro di essere prese in seria considerazione. A entrambe, però, possono essere affiancate alcune considerazioni.
Quanto al rapporto tra Israele e Diaspora, se oggi esso appare, in parte, incrinato, non credo che ciò dipenda principalmente dalle scelte in materia religiosa assunte dalle autorità israeliane, quanto, più in generale, da una crescente presa d’atto, fuori dai confini di Israele, di una oggettiva divaricazione tra i destini delle due realtà. Ogni Comunità ebraica, d’altronde, assume liberamente le proprie scelte in materia di pratica religiosa, e, se ciò porta a differenziazioni o allontanamenti, è da vedere di chi sia la responsabilità. Non so se e in che misura gli israeliani si sentano abbandonati dagli ebrei della diaspora, per il fatto che in alcune delle altre Comunità si seguono tradizioni religiose diverse. Certamente, molti cittadini d’Israele hanno un atteggiamento critico verso alcune posizioni delle locali autorità rabbiniche, è giusto e fisiologico che sia così, ma ciò non implica certo un affievolimento della loro identità ebraica o israeliana. Israele, con tutti i suoi difetti, è e resterà per sempre il cuore pulsante dell’ebraismo, sia di quello religioso, sia di quello laico (due mondi forse meno lontani e contrapposti di quanto talvolta sembrerebbe apparire). Se alcune componenti della diaspora sentono oggi meno forte il loro legame con lo Stato ebraico, credo che ciò sia un problema per entrambi, non per il solo Israele. Ma ci sono anche alcuni non israeliani e non ebrei, sparsi nel mondo, che vedono e continueranno sempre a vedere in quel piccolo Paese – nonostante tutti i possibili errori e difetti di chi vi abita – una stella polare e un imprescindibile punto di riferimento.
Quanto al fatto, poi, che l’impraticabilità della soluzione dei due stati sia un problema e un pericolo, è un fatto innegabile. Ma la solita domanda che si pone, al riguardo, è di chi sia la responsabilità di ciò. Certamente ci sono molti israeliani (e non solo) che hanno perso ogni fiducia nella possibilità di una tale strada. Non so se ciò possa essere considerata una colpa, o non, piuttosto, una triste presa d’atto. A volte, anche l’illusione è una colpa. Chi si è scottato, tante volte, con l’acqua calda, si sa, ha paura anche della fredda. E oggi, poi, di acqua fredda non se ne vede neanche una goccia.
Francesco Lucrezi, storico
(28 marzo 2018)