Machshevet Israel – Il Tanakh è un libro religioso? Sì. No. Anche.
Un audace libro del filosofo israeliano Micah Goodman su Devarim/Deuteronomio è appena stato tradotto in italiano da Giuntina (“L’ultimo discorso di Mosè”) e stimolanti domande sorgono alla sua lettura. Ne scelgo una che mi sembra illuminare una questione data spesso per scontata: se il Tanakh (la Bibbia) sia un libro religioso. La riflessione nasce da questo passo del libro: “In una recente intervista alla radio israeliana, a un giovane scrittore è stato chiesto perché lui e la sua generazione non fossero interessati alla Bibbia. Ha risposto che ‘la Bibbia è un libro dei religiosi’. Anche se oggi – commenta Goodman – la sua risposta può suonare ragionevole, essa avrebbe esterrefatto i padri fondatori d’Israele, come Ben Gurion, Berl Katzenelson e Yitzchak Tabenkin. Per loro la Bibbia non era un libro religioso, ma proprio il contrario: era il testo che invocavano quando si ribellavano contro il mondo religioso del cheder e della yeshivà dell’Europa orientale, dove i grandi temi e le storie della Bibbia erano subordinate allo studio del Talmud…”. Il pensiero qui sviluppato non tende alla vetusta e logora (nonché falsa) contrapposizione tra Tanakh e Talmud, ma alla tesi che, a un certo punto, il sionismo avrebbe abbandonato la Bibbia, la quale è poi finita in mano ai “sionisti religiosi” che, a partire dalla guerra del ’67, ne hanno fatto un manifesto politico. Dunque, tra i fondatori di Israele e il sionismo religioso c’è, proprio a partire dalla Bibbia, continuità politica; ma mi chiedo se non ci sia anche una profonda discontinuità religiosa. Ecco il senso della domanda iniziale: il Tanakh è un libro religioso?
Vorrei rispondere con una perla di Paolo De Benedetti, non a caso posta come incipit di un suo libro ispirato anch’esso a Devarim/Deuteronomio (“La morte di Mosè”, Bompiani 1971): “Se Mosè o Geremia o Gesù avessero pensato che il loro messaggio potesse finire inteso come un discorso edificante da farsi in un luogo sacro, o da meditarsi in un tempo sacro, o in uno spazio interiore isolato a fatica dal resto della vita, si sarebbero meravigliati e sdegnati. Né per Mosè e i profeti né per Gesù le loro parole (quelle che noi chiamiamo Bibbia) erano destinate a un versante religioso della vita, perché questo versante non esisteva”. Oggi esiste, forse ha cominciato ad esistere proprio nei tempi biblici; e dal momento che esiste noi abbiamo difficoltà a comprendere il tutto tondo delle “parole di Mosè” ossia della Torà, perché se diciamo che sono “parole umane” sembra che escludiamo la dimensione divina e se diciamo che sono “parole divine” sembra che escludiamo la dimensione umana. A tanto ci spinge quel versante religioso dacché esiste. Ma se collochiamo la Bibbia “oltre il religioso” tradizionalmente inteso, le parole della Torà si rivelano intrise di una forza dirompente perché riguarda “tutto l’uomo” nel senso qoheletiano del termine: Et ha-Shem ierà ve-et mitzwotav shemor, ki-ze kol ha-adam (Qo 12, 13). Che tradurrei così: Temi Iddio ed esegui i suoi comandi perché in ciò sta il senso di tutto l’essere umano. Il religioso lega, etimologicamente, e restringe in un sacro che all’origine, per così dire, non si dà. In principio Dio crea il mondo, e tutto è inscritto in questo dire-fare il mondo: Homer ve-‘osè, Colui il cui dire è fare.
Per capire la difficoltà si pensi al precetto sintetico e fondamentale “siate santi come Io, il Signore Iddio vostro, sono Santo” (Wajqrà/Lv 19,1). Se il concetto di qedushà è confinato alla sfera che oggi chiamiamo religiosa, il discorso è finito. Si perde nei fumi di pratiche rituali, spirituali, fuori dalla vita quotidiana. Invece il suo senso a tutto tondo scaturisce immediatamente da quel primo dire/fare (qadosh come “essere separato”) del Creatore dalla sua creatura: una separazione che significa spazio di libertà, cura parentale, rispetto dell’alterità, giustizia e pietà. Quando il Creatore crea, instaura un rapporto con il mondo creato. Quel rapporto è la qedushà: distinzione ed elezione, esistenza come precetto, cura nel rispetto della libertà, pietà che non ignora la fragilità e giustizia che non annienta l’autonomia della creatura. I “contenuti” della qedushà sono gli attributi divini, le sue azioni/manifestazioni/relazioni verso il creato tutto. E i maestri dicono: se vuoi essere qadosh (ma è un ‘se vuoi’ che la Torà formula per i figli di Israele come imperativo, non come mero ottativo) imita Dio, ossia cerca di relazionarti al mondo con le stesse azioni/manifestazioni/relazioni del Creatore verso l’intera creazione. Se compresa in questi termini, la qedushà esce dai confini angusti della sfera che chiamiamo sacra o religiosa e diventa un valore etico e una guida pratica per il nostro quotidiano stare-al-mondo.
Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI