Setirot – Il percorso della libertà
Pesach ci ricorda, anno dopo anno, il lungo percorso che ci aspetta verso la libertà, materiale e interiore. Libertà profonda e consapevole, ancestrale. Una sorta di psico-DNA, che nulla ha da spartire con quello del sangue, e che io chiamo identità.
Mi perdoneranno i Maestri se dico che, per me, tra le nostre ricorrenze Pesach è, se non la più importante, certamente quella maggiormente sentita. Più di Kippur. Poco importa quale sia il livello di osservanza, che si sia religiosi e no, credenti o agnostici, che si frequenti il Tempio con maggiore o minore assiduità e convinzione. Le cene di Pesach in famiglia sono lì a perpetuare il “mistero”: l’identità appunto. Ogni anno mi domando e mi domandano il perché di tutto questo. Do risposte che quasi sempre convincono abbastanza dal punto di vista affettivo, emotivo, però lasciano irrisolto il nodo sulla razionalità del percorso.
Che cosa è l’identità? Una risposta che mi è sempre piaciuta sta nelle parole che Sigmund Freud scrisse nel 1930 a prefazione dell’edizione in ebraico di “Totem e tabù”: «Nessun lettore di questo libro troverà facile mettersi nella posizione emotiva di un autore che ignora la lingua delle Sacre Scritture, che è completamente estraniato dalla religione dei suoi padri […] ma che non ha mai ripudiato il suo popolo, che sente di essere nella sua essenza un ebreo e che non desidera cambiare questa sua natura. Se gli si ponesse la domanda: “Ma se avete abbandonato tutte queste caratteristiche comuni, cosa resta in voi di ebraico?” egli risponderebbe: “Moltissimo, probabilmente l’essenziale”. Non potrebbe per ora esprimere a parole questo essenziale. Ma un giorno o l’altro, sicuramente, esso diventerà accessibile alla nostra scienza».
A volte però ciò che la scienza non è in grado di spiegare si può – si deve? – cercare nei Testi. Il mio pensiero va allora a rav Jonathan Sacks e a un pensiero letto anni fa e mai scordato. Ragionando sul “rashà”, il figlio ribelle della Haggadà, e sul suo dire
«voi» e non «noi» durante le domande rituali dei diversi figli durante il seder, il rav insegna che «l’ebraismo è essere in comune. Questo è il principio che il bimbo ribelle nega. L’ebraismo si indirizza agli individui. E nemmeno si indirizza all’umanità intera. Dio ha scelto un popolo, una nazione, e al Monte Sinai gli ha chiesto di promettere fedeltà, non solo a lui, ma anche a se stessi fra di loro. “Emunà”, parola chiave normalmente tradotta come “fede”, più propriamente indica lealtà – a Dio, ma anche al popolo che Egli ha scelto come portatore della Sua missione, testimone della Sua presenza. È vero, a volte gli ebrei sono esasperanti. Rashì, nel suo commento all’incarico che Mosè fa al suo successore Giosuè, scrive che egli gli disse: “Sappi che loro [il popolo che stai per condurre] sono importuni e contenziosi”. Ma gli ha anche detto: “Tu sei fortunato perché avrai il privilegio di condurre il popolo di Dio in persona”. In questa idea fondamentale esiste una misura di speranza. Certo, oggi non tutti gli ebrei seguono la legge ebraica. Ma molti che non la seguono, si identificano comunque con Israele e il popolo ebraico. Sostengono le sue cause. Quando Israele soffre anche loro sentono dolore. Sono implicati nel destino del popolo. Sanno fin troppo bene che “Israele oggi è perseguitato e oppresso, odiato, tormentato e sopraffatto da afflizioni”, ma non voltano le spalle. Possono non essere osservanti, ma sono leali – e la lealtà è una parte essenziale (anche se solo una parte) di ciò che è la fede ebraica. Quindi, dal negativo possiamo arrivare al positivo: che un ebreo che non dice “voi” quando Israele viene attaccato, ma “noi”, ha fatto un’affermazione fondamentale – di essere parte di un popolo, condividendo le sue responsabilità, identificandosi nelle sue speranze e timori, celebrazioni e tristezze. Questo è il patto, ed ancora oggi ci chiama all’appello.
Stefano Jesurum, giornalista