Società – Antisemitismo, lo spettro della Francia

Come un mostro informe che appare d’improvviso e poi s’inabissa, l’antisemitismo continua ad attraversare i nostri tempi nelle forme antiche della discriminazione o nelle nuove possibilità offerte dal web. Una lunga storia che non finisce e si nutre delle paure diffuse, del bisogno di cercare un nemico, un obiettivo per scaricare frustrazioni, violenza e intolleranza. Possibile? Dopo le tragedie del secolo scorso, quando la distruzione degli ebrei d’Europa è diventato un proposito, un progetto concreto, una politica di annientamento e distruzione? Troppo semplice rispondere che la memoria non si trasmette, che i canali di comunicazione tra le generazioni si sono interrotti o peggio pensare che in nome delle incertezze sul futuro, delle condizioni di vita nelle periferie delle grandi città possano ripresentarsi fantasmi che pensavamo scomparsi e sconfitti dalla storia. Quel mostro non è morto, si rianima facilmente trovando argomenti e terreni per rimettersi in moto. Ogni qualvolta si abbassa la guardia, ci si gira dall’altra parte, si fa finta che non sia necessario difendere e valorizzare differenze, culture, identità. Il cuore del progetto europeo dopo la fine della seconda guerra mondiale era proprio orientato alla costruzione di uno spazio per tutti, una convivenza vantaggiosa e propositiva in grado di cancellare gli orrori del passato tracciando una rotta possibile, una direzione di marcia contro l’odio e la sopraffazione. Ecco perché colpisce che la Francia sia ancora al centro delle violenze antisemite. Segnali che si ripetono nel lungo dopoguerra che abbiamo alle spalle: le profanazioni dei cimiteri ebraici, le scritte sulle sinagoghe, cori e striscioni negli stadi, gli attacchi a Simone Veil o a esponenti di punta della comunità ebraica parigina. Un clima di paura che ha spinto una nuova emigrazione di massa verso la ricerca di sicurezze e protezioni per non dover riaprire ferite e responsabilità del passato. Nel luglio 1942 Mireille Knoll era sfuggita a un rastrellamento, la più grande retata di ebrei catturati nella capitale francese. Oltre 27 mila trascinati a forza nel Velodrome d’hiver, uno stadio che potesse contenerli prima di condurli verso un viaggio senza ritorno. Un’operazione complessa guidata dai nazisti con l’appoggio di chi collaborava alle politiche di deportazione e sterminio. La Francia divisa, attraversata dalle dinamiche di una contrapposizione frontale tra chi si arrende o collabora con la Germania nazista, chi si schiera per comodità, convinzione o furbizia con l’invasore e chi invece tenta di resistere pensando al dopo, a una possibile rinascita. Mireille era una bambina, meno di dieci anni nel 1942, riesce a sfuggire grazie al passaporto brasiliano della madre, si salva dall’abisso che colpisce gli ebrei francesi. Poi la vita del dopo, un marito deportato e sopravvissuto, il ritorno a Parigi a una vita come tante in un appartamento dell’undicesimo arrondissement. Venerdì scorso l’irruzione in casa, le violenze con un’arma da taglio e l’incendio che distrugge una vita cancellando tracce, memorie e ricordi di un’infanzia lontana. Sono indagati due giovani della zona che avevano minacciato la donna prendendola in giro in varie occasioni. La polizia sembra aver confermato la matrice antisemita dell’attentato. Ancora una volta – come nel caso di Sarah Halimi uccisa da un vicino di casa nell’aprile 2017 – il confine tra le parole e i fatti viene attraversato senza resistenze. Dalle minacce alle azioni, dallo scherno alle intimidazioni come se il contesto fosse popolato da spettatori ignavi o da quella indifferenza contagiosa che ha reso possibile l’impensabile.

Umberto Gentiloni, Repubblica, 27 marzo 2018