Istruzioni per parlare da soli
Nell’ebraismo italiano vi è, per via delle Intese, un insieme geograficamente ordinato di Comunità. Ciò non toglie che, ad una più impegnata e impegnativa disamina, se ne scorgano delle altre, variamente connotate, che non sono delle comunità in senso giuridico, bensì delle formazioni sociali nel senso dell’art. 2 della Costituzione, formazioni connotate talvolta dalla struttura, talaltra dalla loro forte identità. Non le chiamerò per nome, non tanto per via di una qualche ritrosia, ma perché è giusto che lo facciano il lettore stesso, oppure i soggetti coinvolti.
Potrei fare un esempio lontano e, al contempo, assai vicino, ed è quello dei centri Zhitlovsky/ICUF (Idischer Cultur Farband) in qualche Stato sudamericano, residui di un risalente passato bundista, la cui identità ebraica, essendo dichiaratamente legata soltanto alla cultura, tende a sfilacciarsi avvolta dalle proprie contraddizioni, prima fra tutte quella ontologica fra materialismo dialettico e impronta sovrastrutturale.
Un ulteriore esempio potrebbe derivare dalla Ievsektsia, l’onnipresente sezione ebraica dei partiti comunisti, oppure, nei sistemi concordatari, dalle diverse correnti dell’ebraismo riformista.
Correnti di pensiero proprie di ogni società, che dovrebbero essere l’espressione non solo di ideologie ma soprattutto di studi approfonditi, di ricerche e di una cultura nutrita dalle fonti che sono alla base della civiltà in generale e dell’ebraismo in particolare.
Tuttavia, ad un’analisi poco più che epidermica, si scorge che tante dialettiche nostrane sono figlie inconsapevoli delle risalenti (e complesse) tensioni fra i sionisti ed il Comitato degli italiani di religione ebraica, le cui rispettive ideologie rispecchiavano modi opposti di risolvere i loro problemi identitari (a questo riguardo, un ottimo resoconto si trova in Gabriele Rigano, Il caso Zolli, Guerini, Milano, 2006).
Malgrado siffatte tensioni, che ubbidivano ai richiamati travagli identitari, l’ebraismo italiano, insignificante nei numeri, ha espresso nella società italiana, soprattutto dal 1870 in poi, dei talenti tali in tutte le aree possibili, da meritarsi l’eterna riconoscenza del Paese. Talenti non scaturiti da ipotesi genetiche razziste/razziali bensì da quel flusso di pensiero ebraico che, da ultimo, Roberto Della Rocca ha ben tratteggiato (Con lo sguardo alla luna, Firenze, 2015).
Negli ultimi decenni, come ben sappiamo, questa fioritura s’è arrestata, in campo ebraico e in campo non ebraico, per via, come suggerisce Ernesto Galli della Loggia, dello sfascio delle scuole di ogni ordine e grado.
Così, quando si tratta di analizzare sia la società in generale che l’ebraismo in particolare, notiamo: a) che dal punto di vista culturale non si conosce la storia del popolo ebraico, come evidenziato, ad esempio da tesi improbabili sul Bund e sulla Shoah; b) che il filone di pensiero tende ad attestarsi sull’asse destra/sinistra, ignorando la scaturigine dei problemi di sicurezza e finanche di sopravvivenza fisica dell’ebraismo mondiale. Certamente vi sono delle personalità di valore, però l’Italia attuale tutta stenta a distinguerle, come insegna, da ultimo, Roger Abravanel, i cui studi potrebbero celarne un altro, nell’area del non detto, recante istruzioni per parlare da soli.
Emanuele Calò, giurista
(3 aprile 2018)