Periscopio – Roberto Piperno (1933-2018)

lucreziLa scomparsa di Roberto Piperno – nato a Genova nel 1933 e mancato a Napoli lo scorso 24 marzo – priva la città, il Paese, la Comunità ebraica, tutti i cittadini sensibili ai valori dell’uguaglianza, del rispetto, della dignità umana, della Memoria, della voce di un Testimone particolarmente caro e prezioso, ricordato da tutti coloro che hanno avuto il privilegio di conoscerlo di persona per le sue rare doti di umanità, delicatezza, garbo. Uomo semplice, discreto, arguto, lontano dalla mondanità e dagli intellettualismi, Roberto è stato chiamato al difficile compito di vivere una vita apparentemente felice e serena – sorretto dall’amore della moglie Francesca e della figlia Alessandra, dall’affetto e dalla stima dei tanti amici, da una solida attività lavorativa – portando sempre nel cuore il terribile ricordo delle ingiurie subite da lui e dai suoi parenti durante “l’ora più buia”. Molti dei suoi familiari – zii e cugini -, infatti, a cui era legatissimo, furono assassinati nella Shoah; il padre, catturato e seviziato dai nazifascisti, riuscì a sopravvivere, ma morendo di crepacuore, poco dopo la Liberazione, per il trauma subito; ed egli stesso, da bambino, subì la crudele sopraffazione, a seguito delle Leggi Razziali del ’38, di essere cacciato dalla sua aula scolastica, per essere confinato nella famosa “classe speciale” allestita nella Scuola Vanvitelli di Napoli, nella quale, grazie alla ‘magnanimità’ del regime, essendosi raggiunto il numero minimo di dieci bambini, i piccoli appartenenti alla “razza ebraica” poterono comunque studiare, sotto la guida di insegnati di alto di valore, entrando e uscendo da scuola in orari diversi rispetto a quelli dei compagni “ariani”, ad evitare il rischio di pericolose “contaminazioni”.
Uomo profondamente buono, generoso, incline al sorriso e al buonumore, Roberto era naturalmente alieno da sentimenti di rancore, rabbia, vendetta. Ma, avendo scolpita nel cuore un’innata aspirazione alla giustizia, considerò anche sempre suo dovere ricordare e raccontare cosa era accaduto, in un mondo sempre più portato, invece, a dimenticare, banalizzare, relativizzare, negare, schernire. Portava spesso, alla funzione religiosa dello Shabbat, in Sinagoga, l’elenco dei suoi parenti sterminati, chiedendo al Ministro di Culto di ricordarne i nomi. E ricordo bene quando, a una cerimonia pubblica, presso la Comunità Ebraica, circa una ventina d’anni fa, alla quale fu chiamato a ricordare la sua esperienza di bambino “ghettizzato”, la sua voce, sempre serena e pacata, si incrinò in un momento di tensione, che spezzò – con un lieve aumento del tono, un accenno di singhiozzo represso, un improvviso lampo di durezza nello sguardo – l’andamento normale del racconto, allorché pronunciò questa semplice frase: “è stata una cattiveria”.
Una cattiveria, sì. I grandi Testimoni – Elie Wiesel, Primo Levi, Jean Amery, Wassilj Grossman, Bruno Bettelheim e tanti altri – hanno lasciato pagine mirabili su ciò che è accaduto, su cui tutti noi siamo chiamati a riflettere e a meditare. Ma nessuno di loro è mai riuscito a spiegare il senso della Shoah, a ricondurla in un orizzonte di intelligibilità, di umana razionalità. Anche Roberto, uomo di grande intelligenza e cultura, avrebbe potuto affidare la sua esperienza a delle pagine scritte. Non l’ha fatto, forse perché, da uomo profondamente buono, gentile, mansueto, ha preferito cercare di ricucire un tessuto di relazioni fatte di solidarietà, amicizia, condivisione, fratellanza. Sono questi i fili che hanno composto il manto della sua vita, come ben sa chiunque lo abbia conosciuto. Ma in questo ordito, in questa tela, ci sarebbe sempre stato uno strappo, una lacerazione, che non avrebbe mai potuto – né dovuto – essere riparata. Uno sfregio, una cicatrice, una macchia indelebile. Quelle poche, semplici parole – “è stata una cattiveria” -, che hanno incrinato, per un attimo, quel giorno di vent’anni fa, la sua voce, richiamano il linguaggio semplice dei bambini, che dividono le azioni in due sole grandi categorie, buone e cattive. Pronunciate da un uomo della maturità e dell’intelligenza di Roberto, mi sembrano esprimere, più di tanti libri, il senso dell’eterno stupore dell’uomo giusto di fronte al male gratuito, alla nequizia che sgorga dal nulla, dall’orrido antro nero sepolto negli abissi dell’animo umano. La cattiveria pura, assoluta, priva di qualsiasi giustificazione al di fuori della propria mera esistenza. Qualcosa che l’uomo giusto non riesce a comprendere, perché non conosce.

Francesco Lucrezi, storico