JCiak – L’alba della rivoluzione
La rivoluzione è giovane, annuncia la locandina. Basta guardarsi attorno e viene da ridere (o piangere, dipende dei gusti). Ma il lancio de Il giovane Marx, da oggi nelle sale, spinge con decisione l’acceleratore sulla giovinezza: come stato d’animo rivoluzionario oltre che dato anagrafico dei due protagonisti Karl Marx e Friederich Engels che, come nota il regista Raoul Peck, non avevano nemmeno trent’anni quando, nel bene o nel male, iniziarono a cambiare il mondo. Benché intrigante nella premessa, l’idea di raccontare la loro amicizia prima che entrambi diventassero famosi – dal secondo incontro nel 1844 al 1848, anno della pubblicazione del Manifesto del Partito comunista – finisce però per scivolare sulla sua stessa raffinata complessità.
Il giovane Marx era stato uno dei film più attesi alla Berlinale, dove un anno fa era stato presentato fuori concorso. Il regista haitiano Raoul Peck era fresco di candidatura all’Oscar per il bellissimo I Am Not Your Negro (2016), documentario basato su un testo di James Baldwin che rimescolando interviste d’epoca e spezzoni contemporanei ripercorreva la storia delle tensioni razziali negli Stati Uniti.
Il lavoro ha però diviso critica e pubblico. Il film dedicato a Marx esce dal piattume di tante biografie romanzate intrecciando vita privata, riflessione filosofica e scenari storico politici in un vortice di stimoli tutti da approfondire, ma nel complesso stenta a prendere il volo.
La scena di apertura ci porta direttamente nel cuore del@ soggetto, la nascita della dottrina marxista. Siamo nel 1842. In scena, un gruppo di contadini che raccolgono i rami caduti a terra nella foresta e per cià sono assaliti dalla polizia a cavallo: anche quella povera raccolta è considerata un furto.
La violenza indigna il giovane Marx (August Diehl) che ne scrive a più riprese sul giornale Rheinische Zeitung. Quando il giornale chiude e lo staff è arrestato, Karl rifiuta di venire a più miti consigli e si ripromette invece di diventare ancora più esplicito. Presto si trasferisce a Parigi insieme alla moglie Jenny von Westphalen (Vicky Krieps), aristocratica che l’ha sposato – lui figlio di un ebreo convertito – contro ogni convenzione di classe.
A Londra Marx incontra Friederich Engels (Stefan Konarske) e dopo le prime scintille, i due stringono un sodalizio destinato a fare storia. Costretto all’esilio, braccato dalla polizia, poverissimo, Marx continua assieme a Engels il suo lavoro monumentale e le loro strade s’incrociano, spesso scontrandosi, con altri pensatori di spicco, tra tutti Pierre-Joseph Proudhon (Olivier Gourmet) e l’anarchico Mikhail Bakunin (Ivan Franek).
L’azione culmina a Londra, nel 1847, al congresso della Lega dei giusti. I due amici sono accolti in modo trionfale e nel giro di poche votazioni il gruppo, di ispirazione socialista e cristiana, si trasforma in Lega comunista. Cambia anche il motto. Il “Tutti gli uomini sono fratelli” usato fino allora, diventa “Proletari di tutti i paesi, unitevi”.
In finale, le parole di Marx (“in passato i filosofi hanno solo spiegato il mondo. Il punto è cambiarlo”) vengono fatte risuonare, con una certa vena euforica, nel passato prossimo. Sulle note di Bob Dylan vediamo il Che, il Muro di Berlino, Nelson Mandela, il movimento Occupy. In una recensione al vetriolo, Hollywood Reporter ha paragonato Il giovane Marx alle “note per un corso universitario sulla storia del XIX secolo”. Eppure è un film da vedere. Il tocco di Raoul Peck è inconfondibile e ritrovare sullo schermo le idee che hanno segnato un’epoca fa sempre piacere, anche se la rivoluzione non è più così giovane e comunque non si sa dov’è andata a finire.
Daniela Gross