…carciofo
Nessuno, in Italia, si sarebbe mai giocato un solo centesimo di euro per scommettere che il carciofo alla giudia sarebbe diventato un giorno il simbolo della crisi istituzionale dell’ebraismo italiano. A rivelarcelo, sventuratamente, è ora la Rabbanut HaRashi, il rabbinato centrale, di Israele. Se avessimo scommesso sul carciofo alla giudia saremmo diventati milionari. Ma non ci abbiamo pensato.
I termini del disastro filosofico sono ormai ben noti: la cottura alla giudia non consente di sfogliare il carciofo in modo da eliminarvi i possibili insetti presenti fra le foglie. Non entreremo, chas v’sholem, nella polemica halakhica. Spetta ai posekim, gli esperti di halakhah delegati allo scopo, decidere se vi sia una via alternativa al bando pronunciato dal Rabbinato di Israele.
Rimane per noi, invece, un interrogativo lancinante, serio quanto mai, sulla sopravvivenza dell’ebraismo italiano.
Siamo i superstiti di esili sanguinosi e strazianti, dalla Palestina e da tutti gli angoli dell’Europa cristiana. Qui, abbiamo sviluppato una cultura ebraica di tutto rispetto. Siamo anche sopravvissuti alla Shoah. È vero, la crisi del moderno ci ha travolto ma, ciò nonostante, ci siamo tenuti in vita, e grazie a una tradizione compromissoria abbiamo tenuto in vita il nostro ebraismo. Il grande Leon Modena probabilmente beveva vino ‘stam’, non certificato casher. Non ne facciamo un motivo di orgoglio, ma non gliene facciamo neppure una colpa meritevole di pena capitale: è stato ugualmente un grande ebreo, ed è stato un tassello di quell’ebraismo che abbiamo ereditato e che ancor oggi viviamo, nel modo in cui lo viviamo.
Negli ultimi decenni, per immigrazioni e per qualche altro motivo storico contingente, l’ebraismo italiano ha preso un’altra piega, leggermente più rigorosa. L’esistenza dello Stato di Israele, con un suo Rabbinato Centrale, è stato uno di questi motivi contingenti. E poiché Israele è Reshit Tzemichat Ge’ulatenu, il principio del germogliare della nostra redenzione, si è iniziato a far riferimento a quel Rabbinato Centrale per ogni problema che richieda particolare profondità di analisi e di giudizio. Abbiamo così riconosciuto la centralità di Israele, ma anche debolezza e fragilità del nostro ebraismo. E più noi ci adeguiamo al rigore che ci viene richiesto e più il nostro ebraismo scricchiola sotto i colpi inferti da un rigore a cui l’ebraismo italiano non è mai stato abituato. Il guaio è che ci siamo adeguati al principio che il nostro ebraismo abbia bisogno di un riconoscimento da parte del Rabbinato d’Israele. E ciò vale per i carciofi tanto quanto per un ghiur. Giorno dopo giorno siamo travolti da polemiche interne sul vino mevushal, sul kosher glatt, sul chalav Israel e via dicendo. Si pensa che maggior rigore significhi sempre, necessariamente, maggior merito dell’ebreo nei confronti del suo Creatore. Ogni decisione deRabbanan (introdotta nei secoli dai Rabbanim di varia provenienza) si equivalga con la parola ultimativa della Torah (de’oraita). E, per colmo di ironia, si intrecciano tradizioni sefardite e ashkenazite senza alcuna distinzione, pur di adeguarsi, in ogni campo, al massimo rigore.
Fin qui, c’è poco spazio per la polemica: questa è un sunto, pur approssimativo, di storia.
Rimane aperto, a questo punto, il problema del futuro, che, su questa strada, non porterà molto lontano. Le fratture e le separazioni all’interno dell’ebraismo italiano sono già avvenute. La crisi andrebbe affrontata a viso aperto, per impedire che il nostro ebraismo soccomba. E non è certo girandosi dall’altra parte che ci si prepara al futuro. La politica dei ‘pochi ma buoni’ e del sempre maggior rigore non fa l’interesse della nostra sopravvivenza. E non si tratta di cancellare l’halakhah, quanto di stabilire dei requisiti minimi, anziché alzare continuamente l’asticella per mettere alla prova la resistenza dell’ebreo – che di prove di resistenza ne ha quotidianamente ben altre da affrontare.
Alla fine, il problema è se vi sia una via privata alla verifica degli insetti fra le foglie del carciofo, se vi sia una via privata alla sua consumazione quando cotto alla giudia, e se vi sia una via privata alla coscienza della propria casherut, che non dipenda dal massimo rigore possibile, bensì dal requisito minimo di adesione. Forse è proprio su questo intervallo che il rabbinato italiano dovrebbe aiutarci (e aiutarsi) a ragionare. Per il bene dell’ebraismo italiano. E senza troppi contributi dall’esterno.
Dario Calimani, Università di Venezia
(10 aprile 2018)