Periscopio – Nero
Nelle civiltà occidentali, com’è noto, il nero è considerato un colore – anzi, un non-colore – simbolo di lutto, di morte. In passato, per le vedove era doveroso vestirsi di nero, anche per tutta la vita, e anche i maschi indossavano vestiti neri o, almeno, una cravatta, una fascia al braccio, un bottone neri. L’aldilà è spesso stato rappresentato come il luogo dell’ombra, delle tenebre, e nelle tombe, senza dubbio, non c’è luce. Non in tutte le culture è sempre stato così: per gli antichi Egizi, per esempio, il nero simboleggiava il limo reso fertile dalle inondazioni del Nilo, ed era quindi simbolo di fecondità, di rinascita. In Giappone il colore del lutto è il bianco. E, soprattutto, c’è nero e nero. Senza il buio non ci sarebbe la luce, il nero della notte è anche l’attesa dell’alba, così come il buio della Genesi, prima della creazione, è l’annuncio della luce, creata da Dio. Il nero può anche essere il punto di partenza per l’arrivo dei colori, della luce.
Ma c’è anche altro nero. C’è un nero che vuole restare nero, e che si adira immensamente di fronte alla pur minima presenza di ogni barlume di luce. Un nero nerissimo, che si nutre solo di oscurità, e che odia ogni chiarore, ogni possibile luminosità. Il nero dei diavoli, di Dracula, dei pipistrelli, dell'”aere tenebroso” dell’inferno dantesco. O l’immensa nube nera che, da alcuni giorni, vediamo innalzarsi al cielo da una certa località non lontana da noi, sprigionantesi da un enorme, raccapricciante rogo di gomma, alimentato da alcuni sinistri stregoni, che comandano, con la forza del terrore, a schiere di giovane inservienti di mantenere sempre viva l’orrida fiamma, anche mettendo a rischio la propria vita.
Questo nero, a mio avviso, è talmente nero da inghiottire, nella propria oscurità, qualsiasi commento, qualsiasi analisi. Le parole ad esso dedicate – a cominciare da queste che sto scrivendo – sono inutili, in quanto destinate a perdersi in quella coltre di fumo che tutto avvolge, tutto copre, tutta cancella. Non resta che contemplarlo, come ipnotizzati dalla sua forza arcana, oscura, malefica. Perché, quantunque malvagia – anzi, proprio in quanto malvagia -, non c’è dubbio che quella del nero – di questo nero – sia una forza. Pensiamo a quanto deve essere complesso e articolato il vocabolario deputato a descrivere i colori, e a collegare ciascuno di essi alle mille diversità del creato: qual è il colore dell’alba? e quello del tramonto? quante tonalità di verde hanno le varie foglie? che differenza c’è tra il rosso di un garofano e di un tulipano? quante sfumature di azzurro, blu, celeste ci sono nel mare? e nel cielo? di che colore sono le piume degli uccelli? e gli occhi delle persone che amiamo, alle varie ore del giorno? il loro sorriso cambia questo colore? e lo cambia più l’amore di chi li guarda, o di chi è oggetto dello sguardo?
Che cosa complicata, sdolcinata, mica tutti sono poeti, mica tutti hanno tanto tempo da perdere dietro a inutili frivolezze. Di fronte ai colori, alla luce – con le loro mille distinzioni, articolazioni, sfumature, variazioni, intersezioni, miscele -, il nero ha, dalla sua, la forza formidabile della semplicità, dell’assolutezza, dell’unicità. È nero, punto e basta. E sbaglierebbe chi pensasse che tale non-colore esprima solo il sentimento degli stregoni nei confronti dei loro amati vicini. No, quella nube dice molto di più: dice tutto del sentimento provato nei confronti dei loro schiavi, del resto del mondo, della vita, del destino riservato alla loro cupa prigione (perché è verissimo che – come si sente spesso dire – è una prigione, anche se si mente spudoratamente sull’identità dei carcerieri).
C’è ben poco da aggiungere, da commentare. Così come tutti i colori, anche tutte le parole sono irriducibili nemiche del nero. Anche queste poche righe, che, infatti, non esprimono nessuna interpretazione, nessuna analisi, limitandosi ad accusare ricevuta, come facevano i nativi americani con i segnali di fumo. Sì, stregoni, l’abbiamo visto.
Francesco Lucrezi, storico