Machshevet Israel – Il diritto naturale e la Torah
All’inizio di aprile si è tenuta all’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, a Roma, una due giorni di conferenze e workshop dal titolo Natural Law in Medieval Philosophy: Traditions, Convergences and Divergences. Ancorché la sede implicasse una forte connotazione, gli organizzatori hanno garantito la presenza di autorevoli voci nell’ambito del pensiero ebraico e mussulmano, rispettivamente invitando come relatori i professori Jonathan Jacobs, del John Jay College CUNY, e Anver M. Emon, dell’università di Toronto. In tale contesto, nel secondo giorno, la professoressa Lucia Corso – che, da filosofa del diritto, si è occupata a più riprese degli elementi di intersezione tra ambito normativo e religioso – ha tenuto un intervento inerente la possibilità, o meno, di utilizzare un concetto quale quello di ‘legge naturale’ nell’ambito del pensiero maimonideo e – più strutturalmente – nell’ambito del pensiero ebraico. Qual è la concezione di legge che presuppone la possibilità di qualcosa come il diritto naturale? Ed è, tale concezione, sovrapponibile a quella che l’ebraismo restituisce della Torah o viceversa l’idea ebraica di legge (ovvero, diremo secondo una traduzione maggiormente perspicua, di Insegnamento) non trova momenti di corrispondenza con ciò che il pensiero occidentale ha chiamato giusnaturalismo? In effetti se quest’ultimo individua le radici del fenomeno normativo o in quelle leggi che governano gli esseri viventi o nella ragione e nei sentimenti dell’essere umano, l’ebraismo, con l’idea del matan torah, si pone su un piano antitetico: l’idea stessa di kedushà, di santità o distinzione, sottolinea come, nella percezione della Tradizione, l’Insegnamento venga da una dimensione non immanente, dunque non confondibile né con le leggi della natura né con la ragione e/o i sentimenti dell’uomo. Tuttavia Maimonide riconosce come vi siano nella Torah comandamenti che sarebbero esistiti – prescrizioni che sarebbero restate valide – anche allorché non vi fosse stato il matan Torah. Dovremmo allora riconoscere in questi una sorta di nucleo giusnaturalistico? Forse da un punto di vista storico. Dal punto di vista della Tradizione, invero, resta che quelle prescrizioni sono comandamenti nella misura in cui sono parte della Torah. Il che, ritornando all’intervento di Corso, ha uno specifico rilievo giusfilosofico: non sarebbe rintracciabile una distinzione tra un nucleo di principi non derogabili di contro a una ‘periferia’ di norme soggette a revisione, viceversa tratto qualificante, dalle dieci parole alle norme di kasherut passando per le norme non più/non ancora praticabili, sarebbe, appunto, la matrice trascendente – la kedushà. Qui, dunque, la netta distinzione sul modo di concepire l’origine del fenomeno normativo. Il che ha non poche implicazioni. Anzitutto l’assunto secondo cui non si scopre una norma ritenuta pre-esistente bensì si obbedisce a una norma impartita (o dovremmo dire, con matan torah, donata…). Cosa ne è, allora, del ragionare e del deliberare – quel moto di passione intellettuale rappresentato dal famoso passaggio talmudico in cui viene ribadito, di contro all’interpretazione favorita dalla bat kol (la voce proveniente dal cielo) che “Lei [la Torah] non è nei cieli”? Il punto è, continuava Corso, che tale afflato intellettuale non prende avvio ex nihilo e l’autonomia dell’intelletto si esercita in rapporto alla Torah – quale testo e insieme della Tradizione. Forse è qui che corre la differenza, per riprendere un’immagine di David Banon, tra la Grecia del “concetto” e Israel dell’“interpretazione”.
Cosimo Nicolini Coen