Società – Lingua ebraica e identità ebraica

Schermata 2018-04-26 alle 20.38.32Il professor Alan Mintz, docente di letteratura ebraica al Jewish Theological Seminary di New York, è deceduto improvvisamente un anno fa all’età di settant’anni. Aldilà del cordoglio suscitato a suo tempo dalla notizia e degli studi da lui compiuti sul contributo fornito dai poeti ebrei americani del primo Novecento alla rinascita della lingua ebraica, la sua figura è per noi degna di nota soprattutto per aver pubblicato un breve articolo dal titolo Seven Theses on Hebrew and Jewish Peoplehood, un autentico manifesto sull’importanza dell’apprendimento dell’ebraico. “L’ebraico rappresenta la struttura profonda della Jewish Civilization”, esordisce lo scritto. Non ho tradotto le ultime due parole: non saprei come rendere Jewish in italiano se non ripetendo “ebraica”. Ma i due aggettivi inglesi hanno sfumature differenti e di ciò l’autore era ben consapevole. La sua tesi è che la lingua può unire il popolo assai più di altri aspetti della vita ebraica. In senso diacronico e sincronico. In senso diacronico, i vocaboli ebraici accumulano continuamente nuovi significati senza perdere quelli più antichi. Quando i contadini sionisti erano alla ricerca di una terminologia per i loro lavori agricoli la Mishnah, ancorché redatta 1700 anni prima, era pronta a fornirla. Weahavtà (“e amerai”) allude all’Amore di D. comandato nello Shemà’, ma anche all’esperienza psicologica dell’amore terreno. “Se tu cerchi bittachòn hai bisogno di bittòchen”, mi dicevano negli Stati Uniti: la pronuncia sefardita moderna si applica per indicare la sicurezza militare, mentre quella askenazita ci rimanda alla fiducia in D. Ma la parola è la stessa. In senso sincronico, la lingua ebraica ha la capacità prodigiosa di creare un ponte fra settori diversi del nostro popolo: non solo fra sefarditi e ashkenaziti, ma anche fra osservanti e laici e fra lo Stato d’Israele e la Diaspora. Visitando qualsiasi Comunità ebraica al mondo, nel momento in cui ci si presenta parlando l’ebraico si viene subito guardati con assai meno sospetto. Lo stesso accade, in genere, ai controlli aeroportuali allorché si è in procinto di volare per Israele. L’ebraico è un’attestazione vivente sia della nostra vocazione nazionale che di quella universale. E soprattutto si ha l’opportunità di creare nuovi legami e nuove amicizie. Con buona pace persino di alcuni miei illustri colleghi americani che con la Lingua dei Padri hanno non poche difficoltà di comunicazione, essa è un passaporto eccezionale. La conoscenza dell’ebraico, scrive Mintz, è un marcatore- chiave del successo professionale nell’educazione ebraica, nel rabbinato, nel cantorato e negli studi ebraici accademici a prescindere da ogni tendenza e denominazione. Anche coloro che lo parlano zoppicando, inoltre, hanno la possibilità di contribuire allo sviluppo di quello straordinario laboratorio linguistico che è, e continua più che mai a essere, la lingua ebraica al servizio del pensiero ebraico. Basti pensare alla capacità che hanno le radici triconsonantiche di trasformarsi e reinterpretarsi attraverso l’aggiunta delle vocali: corpi che si lasciano forgiare dalle rispettive anime. Ma c’è un punto ulteriore che ritengo sensibile. Scrive Mintz al quarto dei suoi sette punti: “L’enorme produzione di traduzioni delle fonti ebraiche classiche è sia motivo di celebrazione che di costernazione. Da un lato il fenomeno rappresenta un’ammirevole democratizzazione degli studi ebraici; dall’altro porta a credere che l’originale ebraico sia semplicemente un ostacolo da superare e un mezzo per trasmettere messaggi che possono essere meglio o più rapidamente intesi in inglese” o qualsiasi altra lingua. Il Talmud racconta che in antico la lettura pubblica della Torah era accompagnata da una traduzione (Targum) verso per verso nella lingua allora più compresa: l’aramaico. Ma con un accorgimento. Significativamente il traduttore aveva la proibizione di una versione scritta e doveva svolgere il suo compito rigorosamente a memoria: se avesse avuto a disposizione un testo redatto nella lingua corrente, in breve questo avrebbe sostituito il Sefer Torah originale e certamente la Torah non avrebbe più avuto lo stesso ruolo centrale che il nostro popolo le ha sempre riconosciuto. In Italia il problema è acuito dall’esiguità numerica dei potenziali lettori. Se si considera che ogni traduzione richiede di ricominciare un’operazione editoriale quasi ex novo e che questa ha dei costi elevatissimi nonostante lo sviluppo raggiunto dalla tecnologia, è naturale domandarsi quanto ne valga la pena. La diffusione degli e-books rappresenta forse una soluzione, ma non elimina tutti i problemi. Occorre anzitutto selezionare attentamente i testi da tradurre, volgendo in lingua italiana solo quelli veramente insostituibili. E soprattutto quelli che siamo in grado di tradurre bene in tempi ragionevoli. Per il resto potrebbe essere assai più remunerativo e produttivo pagare borse di studio anche cospicue ad alcuni allievi promettenti perché si formino adeguatamente in yeshivot o istituzioni accademiche in Israele o negli Stati Uniti. Una volta raggiunta una certa proficiency sui testi in lingua originale, torneranno a fare i Maestri nelle nostre Comunità, sempre che queste ritengano ancora di averne bisogno e di avvalersi della loro opera. Ma soprattutto diffondiamo fra i nostri giovani la passione per la lingua ebraica. Scrive ancora Mintz: “L’ebraico fornisce uno strumento creativo in cui le contraddizioni e i sovvertimenti della cultura ebraica si prestano a una negoziazione… Anche chi conosce solo alcuni aspetti della lingua, guadagna molto in termini di accesso al tesoro dei testi ebraici… L’ebraico (Hebrew) è la barra direzionale della vita ebraica (Jewish): può essere spinta in svariate direzioni così da arricchire e accelerare una reale identità ebraica (Jewish)”.

Rav Alberto Moshe Somekh, Pagine Ebraiche, aprile 2018