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La memoria è un concetto sul quale la coscienza civile europea ha fondato gran parte della sua progettualità politica. Gli ebrei sono uno dei punti focali di questo processo di “rimemorizzazione” della storia. Nelle forme più svariate di religione ebraica, popolo massacrato, sionista imperialista ecc., gli ebrei sono uno dei perni attorno ai quali ruota la dialettica politica pubblica. Solo negli ultimi giorni – tanto per dire – l’immagine degli ebrei è stata evocata con notevoli distorsioni di prospettiva storica in diverse occasioni. Il presidente della Regione Campania che paragona gli iscritti al PD agli ebrei perseguitati dal fascismo, il presidente di Forza Italia che nel celebrare la resistenza paragona il Movimento 5 Stelle all’emergente nazismo hitleriano e dice di sentirsi “come gli ebrei” in quel frangente storico e via di questo passo. È opportuno chiedersi il perché di questa sovraesposizione/distorsione. Potrebbe non essere così? Cosa c’è nell’ebreo “immaginato” che viene tirato in ballo a ogni pié sospinto che induce i protagonisti dell’arena politica a non poterne fare a meno? E quanto stride l’utilizzo della figura dell’ebreo, sempre stereotipata in varie forme a seconda dell’ambito polemico (padre dei monoteismi, vittima sacrificale dei totalitarismi, perseguitato divenuto persecutore ecc.), con la complessa e articolata realtà dell’ebraismo moderno e contemporaneo? L’abuso dell’immagine pubblica dell’ebreo è figlio dell’ideologia antisemita, nel momento in cui non si pone in maniera curiosa e interessata di fronte alle variegate forme che chiameremo con espressione generica ma onnicomprensiva “civiltà ebraica”. Dare dell’ebreo un’immagine univoca (positiva o negativa che sia), e utilizzare quell’immagine come arma dialettica nella polemica politica, significa negare legittimità all’ebraismo per quel che è, nelle sue diverse espressioni reali di vita vissuta. La comunità ebraica europea – che è piccola e spezzettata in innumerevoli diverse forme identitarie – rischia di essere la vera vittima sacrificale di questa dinamica. Strattonata da più parti e chiamata “ad esprimersi”, corre il serio pericolo di legare la sua stessa ragione di essere a identificazioni monolitiche che poco hanno a che fare con la sua storica articolazione plurale. Si tratta di un gioco pericoloso, a cui le diverse leadership dell’ebraismo dovrebbero guardare con sospetto e cautela. Non sempre essere esposti e sovraesposti fa bene alla propria comunità. Il rendersi visibili per farsi conoscere ed aumentare la consapevolezza di questa Europa smemorata (penso alla Giornata Europea della Cultura Ebraica) è una operazione positiva e rappresentativa. Le comunità ebraiche si raccontano per quel che sono, una delle componenti legittime di questa civiltà continentale, che nel recente passato si è tentato di cancellare. E i cittadini europei dimostrano interesse per questa civiltà spesso misconosciuta quando non oggetto di aperta ostilità, imparando a conoscerla e a considerarla parte necessaria del proprio paesaggio umano. Al contrario, chiedere alle comunità ebraiche di esprimersi su questioni pubbliche, o utilizzare a sproposito il concetto di “ebreo” nella dialettica politica o sportiva o in altre espressioni della vita pubblica, può fare solo del male, minando la stabilità di una minoranza fortemente indebolita dall’esperienza storica e alimentando – come se ce ne fosse bisogno – un antisemitismo che sta riemergendo con rinnovata energia.

Gadi Luzzatto Voghera, Direttore Fondazione CDEC