NARRATIVA Eva e Robert: “Siamo ebrei da feuilleton”

Schermata 2018-05-01 alle 16.23.31Un vecchio appartamento a Berlino, nel quartiere Wilmersdorf. Robert Menasse, 63 anni, è venuto da Vienna per questa intervista, a casa della sorella, la scrittrice Eva Menasse, di sedici anni più giovane, ma sarebbe venuto anche a Berlino, a condizione di trovarsi in un posto dove poter fumare. Non sono mai stati intervistati insieme. Il fratello maggiore nell’autunno 2017 ha vinto il Deutscher Buchpreis per il suo romanzo Die Hauptstadt (La capitale) e poco dopo Eva Menasse ha vinto l’Österreichischer Buchpreis per la raccolta di racconti Tiere für Fortgeschriettene” (Animali per esperti). Questo doppio premio in famiglia è il motivo della nostra intervista. Lo hanno fatto “per nostro padre”, dicono. Il padre, l’ebreo Hans Menasse, 87 anni, venne mandato da Vienna in Inghilterra con un Kindertransport quando aveva 8 anni. Dopo la guerra giocò nella nazionale austriaca di calcio. Eva Menasse ha parlato di lui in Vienna, il romanzo basato sulle esperienze della sua famiglia.

SPIEGEL: Signora Menasse, lei vive in Germania e ha vinto l’Österreichischer Buchpreis. Lei, signor Menasse, vive a Vienna e ha vinto il Deutscher Buchpreis. La distanza aiuta ad essere riconosciuti?

Robert Menasse: Se così fosse, dovrei avere il massimo del successo in Cina; ma evidentemente non è così.

S: Ma la sua opera, signor Menasse, è stata recepita dalla stampa austriaca in maniera molta critica, fin dall’inizio, mentre in Germania è stata accolta con benevolenza, se non con entusiasmo.
Eva Menasse: È stato lo stesso per me.
Robert: Nell’opinione pubblica austriaca c’è una sorta di ostilità generale verso gli autori critici viventi. Questo è certamente un cliché, ma in fondo un cliché deve sempre basarsi su una verità, altrimenti non potrebbe diventare tale.
Eva: Io non credo che sia un caso specificatamente austriaco. Ho sempre avuto l’impressione che, diversamente dalla Germania, gli stati successori dell’Impero austro-ungarico possono essere comparati tra loro. Quindi la Repubblica Ceca, l’Ungheria e l’Austria. Qui la politica derivante da quella imperiale ha sempre avuto un che di teatrale. Perciò anche l’arte è politica. In Germania, invece, i due elementi restano nettamente separati.

S: Signora Menasse, lei ha tenuto dei discorsi durante la campagna elettorale di Martin Schulz. Il suo ultimo libro, la raccolta di racconti Tiere für Fortgeschrittene risulta apolitico ad una prima occhiata, al contrario del romanzo sull’Europa di suo fratello. Anche lei quindi, come i tedeschi, separa nettamente le due sfere?
Eva: Agli incontri leggo spesso il racconto Haie (Squali) che parla di un bambino straniero bullizzato a scuola. I lettori trovano questa storia essenzialmente politica. Nei racconti mi interessa ciò che è socialmente rilevante, prima ancora del messaggio finale. Ma non mi è mai capitato di scrivere un romanzo politico come ha fatto Robert.

S: Signor Menasse, lei ha mai tenuto discorsi elettorali come sua sorella?

Robert: No, non mi schiero per i partiti. Mi schiero per le idee. Per me è importante l’impegno politico nel senso di difesa di un ideale e credo che questo appartenga alla funzione dello scrittore. Il principale problema della letteratura impegnata è che nel XX secolo questa definizione è stata sconfessata. Si è imposta l’idea che impegno politico significhi adesione a un partito. (…)

S: Signor Menasse, la tesi centrale del suo romanzo è: l’Europa è controllata dai pragmatisti. I pragmatisti hanno provocato la crisi e non la risolveranno. Abbiamo bisogno piuttosto di sognatori e utopisti.
Robert: Sì, abbiamo di nuovo bisogno di sognatori! Che siano ricchi di esperienza. Era questa la forza dei padri fondatori. (…)

S: Di cosa abbiamo bisogno in Europa?
Eva: Non lo so, cerco solo di capire perché le cose siano così.
Robert: Ci vorrebbe un romanzo. Tanti romanzi. Una nuova commedia umana. Bisogna raccontare; raccontare la realtà.
Eva: Ma ormai nessuno legge più i libri.
Robert: Non sarei così pessimista a riguardo. Non sono egocentrico, ma devo prendere me stesso ad esempio: non sarei quello che sono se non avessi letto dei romanzi. Se avessi avuto solo le esperienze, e non le mie letture, allora forse sarei anche liberalista. A scuola ho conosciuto la violenza. Volevo essere il più forte all’interno del gruppo, avere potere sugli altri, essere il capo. Con la lettura dei romanzi si sviluppa un atteggiamento totalmente diverso.

S: Parliamo di rapporti tra fratelli. Voi due siete fratellastri…
Robert: Fratelli, prego.
Eva: Ci opponiamo all’uso di questa parola orribile, fratellastri. È un’idiozia.
Robert: È come dire ebreo per metà, un’altra definizione stupida. Siamo fratelli, e ci siamo sempre considerati tali.

S: Però avete una bella differenza di età e non siete cresciuti insieme. Siete sempre stati in stretto contatto tra voi?
Eva: Da quando ho imparato a scrivere.
Robert: Da molto prima. Da quando potevi ascoltare delle storie.
Eva: C’è una bellissima foto di noi due: tu hai 18 anni e io 2 e sono seduta sulle tue ginocchia. Robert è andato in Brasile quando avevo 10 anni. Le lettere che ci scrivevamo in quel periodo sono uno dei tanti ricordi della mia infanzia. Allora era tutto molto complicato perché usavamo la posta aerea, che era costosa e aveva tempi lunghi. Però ogni due mesi io ricevevo una lettera da San Paolo. La carta era sottilissima, quella per la posta aerea. Ogni volta era un evento. Mi ricordo una lettera in particolare. Mi chiedevi sempre come andava a scuola e cosa avevo fatto. Io mi sono lamentata che il professore di tedesco mi aveva dato un brutto voto in un tema perché avevo sottolineato delle parole.
Robert: Mi ricordo, mi mandavi i tuoi temi e ti rispondevo, e un giorno ricevetti una lettera da papà che mi diceva: “Robby, non dovresti lodare Eva così tanto per i suoi temi; è convinta di poter diventare una scrittrice.”
Eva: Questa non la sapevo.
Robert: Era preoccupato. Non ha mai creduto che qualcuno potesse mantenersi facendo lo scrittore. Aveva paura che saremmo finiti per strada.
Eva: Eh già, un lavoro da fame.

S: Non voleva che si aspettasse un altro figlio scrittore e così è diventata giornalista.
Eva: Sì, giornalista, che nella nostra famiglia, influenzata anche dagli ebrei che si sedevano al bar e leggevano il giornale, era un lavoro ben visto. Una delle immagini della mia infanzia è mio padre che, la sera, si stende a letto, con dei guanti di cotone bianco e legge Variety. Era nell’industria del cinema. Arrivava per posta da Los Angeles e l’inchiostro veniva via molto facilmente, quindi si metteva sempre i guanti. Ha sempre letto i giornali. E fu molto contento di vedere il biglietto da visita con il nome di una redazione e quello di sua figlia. Lo shock è arrivato, quando gli ho detto: ‘Ho cominciato a scrivere un romanzo, mi dimetterò dal giornale’. E poi ha detto un frase che ancora oggi ripete per scherzare: ‘Tre figli, due scrittori! Cosa ho fatto per meritarmelo?’
Eva: (…) Ogni weekend andavo nel Waldviertel a trovare Robert, sua moglie Sissy e la mia nipotina. Era il decennio tra i miei venti e i trent’anni a Vienna.
Robert: Quando ero lì mentre tu scrivevi, per me era sempre esaltante. Sono incline alla pigrizia. Sono quel tipo di scrittore che sceglie di essere scrittore perché è un lavoro in cui non bisogna scrivere molto. Sono più un sognatore. Mi piace sedermi su una poltrona comoda, le gambe sollevate, un bicchiere di vino sul tavolino, una buona sigaretta e stare ore a pensare e fantasticare. E poi penso: ‘Adesso però pian piano dovrai trascrivere tutto’. E quando Eva era da noi, sempre a scrivere, mi dicevo: E adesso, quando poi ci siederemo insieme a cena e lei mi chiederà: ‘Cos’hai scritto oggi…?’ E in quel momento era più facile sedermi alla scrivania.

S: Quindi, signora Menasse, come si è sviluppato lo studio della sua storia familiare che ha trattato in Vienna? Ne fa parte innanzitutto la scoperta che vostro padre ha dovuto lasciare l’Austria nel 1938 a causa delle sue origini ebraiche e, perciò, che anche voi avete origini ebraiche. E più tardi la consapevolezza che: sì, siamo ebrei, ma non del tutto. Infatti la madre di nessuno dei due è ebrea.
Robert: Siamo ebrei da un punto di vista culturale.

S: Come l’ha scoperto?
Eva: Volevo semplicemente conoscere meglio fatti che sospettavo fossero solamente aneddoti divertenti. Forse non tutto era andato come veniva raccontato.
Robert: Se veniva raccontato.
Eva: Esatto. Venivano raccontate solo le storie belle, i successi. Papà parlava perfettamente l’inglese. Ed era un grande calciatore. Ma il resto mi fu negato nella mia infanzia – quando non c’eri.
Robert: Anche nella mia.
Eva: Le cose tristi e tragiche ho dovuto scoprirle da sola. E mi resi conto anche di questi aspetti. Tra tutte, c’è una storia in particolare che non mi dimenticherò mai: quando ho realizzato per la prima volta l’addio che questo bambino, nostro padre, a otto anni ha dovuto dare, alla stazione. Questa è la storia che sta dietro ai miei scritti letterari.
Robert: Ci sono state anche molte storie – perlomeno nella mia infanzia – delle quali andavamo fieri. Per esempio lo zio Kurt era grande abbastanza da arruolarsi nell’esercito inglese ed è tornato da liberatore, con un’arma in mano. Questa è la storia di un eroe. Ne andavamo tutti molto, molto fieri.
Eva: Esatto. E la migliore tra queste storie di eroi è quella che racconta di quando, dopo il 1945, sono tornati nella casa. Mio zio in uniforme dell’esercito britannico ha detto a suo padre, cioè nostro nonno: ‘Vieni, rientriamo a casa nostra’. Il nonno non voleva. Ma zio Kurt l’ha avuta vinta. (…) L’ha messo in chiaro: siamo di nuovo qui. Abbiamo vinto. Non siamo stati uccisi nei campi di concentramento e siamo così generosi che le lasciamo la casa. Ma questa la devo raccontare. L’inquilino, Reiner si chiamava, era un giocatore del Wunderteam austriaco. Robert: Era esterno destro nel Vienna. E nostro padre quando è ritornato dall’Inghilterra ha giocato per il Vienna e l’ha soppiantato.
Eva: No, no. Reiner allora era già troppo vecchio.

S: Crediamo volentieri alla versione di suo fratello. È così poetica.
Eva: No, lui faceva parte del Wunderteam negli anni Trenta. Nostro padre ha giocato negli anni Cinquanta. Non è vero, Robert. Chiedi a papà.
Robert: La mia versione mi piace di più. Me la ricordo così…
Eva: Tipico. Sono sempre io quella che dice ‘No, questo non è vero’.
Robert: Spesso non siamo d’accordo, perché lei ha una visione al 100 per cento giornalistica.
Eva: Io sono per i fatti.
Robert: Discutiamo sempre sulla storia di famiglia. Anche per le cose più vecchie.

S: Il suo libro ha cambiato le conversazioni famigliari?
Eva: Quando qualcuno non si sa mettere d’accordo, nelle discussioni famigliari, si dice sempre: ‘Ok, vediamo cosa dice Eva nel suo libro’. E io rispondo: ‘Gente, è un romanzo. Non è una testimonianza inattaccabile’. Ma se c’è nel libro, allora dev’essere così. Manipolare le storie è un altro comportamento tipico della nostra famiglia… Ci rilassa.

S: Signor Menasse, la domanda se lei sia ebreo o meno non è problematica per lei come per sua sorella?
Robert: Non sarebbe stata troppo problematica, se non avessi frequentato una scuola così radicalmente cattolica.

S: Può spiegarsi meglio?
Robert: Mio padre è ebreo, mia madre non ha credenze religiose, è un’anarchica politica. Io non sono né battezzato, né registrato presso la comunità ebraica. Eva: Che, visto che nostra madre non è ebrea, non ci accetterebbe comunque.
Robert: In ogni caso nella scuola cattolica ero esonerato dalle ore di religione. Dovevo uscire e restare in corridoio, mi annoiavo a morte. Allora mi sono detto: preferisco rimanere dentro e ascoltare. L’insegnante di religione ha improvvisamente creduto che fossi un’anima da salvare. E si è preso cura di me con particolare attenzione. Si rivolgeva continuamente a me. È diventato troppo e ho voluto tornare in corridoio.
Eva: Ed è lì che ti ha inserito nella sua lista nera.
Robert: (…) Crescendo non ho più avuto problemi a questo proposito. Al contrario. Ho pensato: quest’origine è anche una protezione. Si è sensibili a determinati avvenimenti della società.
Eva: Anche a me questo ha dato fastidio per un periodo. La domanda ‘cosa sei ora?’ e ‘a cosa appartieni?’. All’inizio mi avevano taciuto le origini ebraiche di mio padre, poi, appena ho avuto nelle mie mani questo brandello d’identità, è stato nuovamente preso di mira dagli amici ebrei che mi hanno detto: ‘Ora, con tante mogli non ebree, non c’è bisogno di pensarci’; mi sono arrabbiata perché pensavo: aspettate un minuto, ho appena capito che infanzia dolorosa ha avuto mio padre, e ora volete togliermela di nuovo. Quando avevo vent’anni questo mi irritava molto. Nel frattempo, continuo a infastidirmi se mi viene posta questa domanda. Non voglio che me ne vengano poste altre sulla mia identità e intendo rispondere in futuro: ‘Sì, grazie! Pensate, ne ho una’.
Robert: È strano, per me non è stato così.
Eva: Ho spesso la sensazione di dovermi giustificare.
Robert: Immagino che in una fase molto precoce fossi soddisfatto di non avere un’identità etnica o religiosa o qualsiasi altra identità, ma piuttosto di poterla scegliere. E preferirei vivere in una repubblica poetica, per così dire.
Eva: Mi ha aiutata andare in Germania. Qui sono ‘l’austriaca’, e questo mette tutte le altre domande in secondo piano.
Robert: È divertente.
Eva: Sono seria.
Robert: Sì, tu sei seria, ma è divertente lo stesso. Austriaca!
Eva: Ho la sensazione di essere più libera in Germania. In Austria mi sento oppressa, osservata, come se mi guardassero storto. Probabilmente è una mia paranoia. Robert: Ha a che fare anche con l’essere a casa e con la patria, e io sono come nonno, che amava entrare in una caffetteria e venire salutato con un ‘Salve, Signor Menasse’ dal capocameriere.
Eva: ‘…il solito per Lei, vero?’
Robert: E anche a me piace.
Eva: Mi piace anche questo, ma preferisco Berlino. A Vienna tutti sanno tutto sulla nostra famiglia. Tutti pensano di sapere già qualcosa di me, anche se non mi hanno ancora incontrata. A Berlino non è così. Appena apro bocca dicono: ‘Oh, lei è austriaca. Che bello’.
Robert: Lo capisco bene. Ma vivo maledettamente volentieri a Vienna. (…)

S: E lei, Signora Menasse, osserva tutto questo da lontano?
Eva: Traggo forza da tutto questo. Da estranea. Ne resto fuori. Non sono tedesca. Non sono nemmeno berlinese. Ma sono stata qui così a lungo, che tutto mi è familiare. E mi piace.

S: Quanto spesso si riunisce la famiglia Menasse? A Natale, per esempio?
Robert: A Christmukkah.

S: Come festeggiate?
Robert: Tutti i Menasse ancora in vita che risiedono altrove e sono disposti a venire si riuniscono per cenare insieme.
Eva: E Robert cucina.
Robert: Cucino, poi si raccontano storie. Alcune sono state raccontate centinaia di volte, ma ogni volta migliorano.
Eva: E io le correggo.
Robert: E io le esagero, affinché diventino vere. Esemplare.

Intervistati per la prima volta insieme dal settimanale tedesco Der Spiegel a inizio gennaio, i fratelli Eva e Robert Menasse sono due grandi nomi della letteratura contemporanea di lingua tedesca. Eva, storica e germanista, ha avuto una carriera di successo come giornalista per la Frankfurter Allgemeine prima di lasciare il quotidiano per dedicarsi alla scrittura. Robert è scrittore, saggista e traduttore, e lo scorso ottobre ha vinto, con il romanzo Die Hauptstadt (i cui diritti per l’Italia sono stati acquistati da Sellerio), il Deutscher Buchpreis.

Pagine Ebraiche, aprile 2018

Traduzione di Rachele Ferin e Anna Zanette, studentesse della Scuola Superiore Interpreti e Traduttori dell’Università di Trieste, tirocinanti presso la redazione giornalistica dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. La versione integrale dell’intervista pubblicata da Der Spiegel è disponibile su www.moked.it