La cariatide infelice

torino vercelliChe Abu Mazen si produca in una tiritera di rancido sapore negazionista e di indiscutibile “spessore” antisemita sulla colpa delle vittime d’essere vittime non è per nulla una novità, nello scenario della politica palestinese e mediorientale. Il refrain in parte del mondo arabo è che la Shoah è una menzogna e che comunque gli ebrei “se la sono cercata” (negazione e imputazione, ancorché apparentemente antitetiche, coesistono nello stesso discorso, trattandosi di un cortocircuito logico permanente). Diciamo che ancora nel recente passato il rais palestinese aveva attenuato, con calcolo di opportunistica prudenza, alcune posizioni di cui tuttavia non aveva mai fatto esercizio di abiura. In altre parole: non lo diceva ma continuava a pensarlo. Ragion per cui le sue esternazioni sulla Shoah colpiscono solo per la circostanza e i tempi in cui sono fatte (e non per il merito), segnalando l’ulteriore declino di una leadership debole e ripiegata su di sé, afasica, completamente incapace di riformulare il tema della «questione palestinese» e rilanciarlo sul piano dell’attenzione pubblica. La politica, nelle comunità della Cisgiordania e Gaza, è rigorosamente polarizzata e sequestrata da due attori complementari: da una parte Hamas, organizzazione fondamentalista e fascista; dall’altra, l’alleanza corporativa e generazionale dei vecchi olpisti, cariatidi ed icone del tempo che fu. Né l’una né l’altra molleranno il potere al quale stanno aggrappate. Se ciò dovesse mai avvenire sarà semmai in virtù di un netto cambiamento di scenario prodotto più da fattori esterni alla società palestinese che non ad essa intrinseci. L’antisemitismo di cui Abu Mazen è titolare peraltro deriva dalla vecchia ma mai esauritasi dottrina sovietica del «sionismo» come parte del «complotto imperialista» contro i popoli del Terzo mondo. Si tratta, a modo suo, di una cupa e bieca “tradizione” affermatasi durante gli anni del secondo dopoguerra e usata da Mosca, a quel tempo, per consolidare la capacità di influenzare i processi postcoloniali a proprio favore. Il tracciato storico, al riguardo, è evidente per ciò che riguarda il politico palestinese. Così si è già avuto modo di scrivere ne «Il negazionismo. Storia di una menzogna» (Laterza, Roma-Bari 2013-2017), che: “Un esempio significativo dell’acquisizione dei motivi di fondo del negazionismo è il volume «TheOther Side: the Secret Relationship Between Nazism and Zionism»,di Mahmoud Abbas (meglio conosciuto come Abu Mazen), presidente dal gennaio del 2005 dell’Autorità nazionale palestinese. Nel 1982 presentò e discusse la sua tesi di dottorato, intitolata «The Connection between the Nazis and the Leaders of the Zionist Movement», all’Istituto per gli studi orientali dell’Accademia sovietica delle scienze. Da questo testo è tratto il libro che due anni dopo venne dato alle stampe in Giordania. Gli indirizzi di fondo di «The Other Side»mettono in discussione il numero di morti causato dal genocidio nazista, ritenendo la cifra di 6 milioni una deliberata esagerazione. Ai «sionisti» viene inoltre imputata la responsabilità di avere creato «un mito» riguardo alle dimensioni della tragedia, peraltro interessati com’erano ad alimentare le violenze contro i correligionari europei per consolidare la propria posizione politica nella Palestina mandataria. Di fatto il movimento sionista avrebbe quindi preso parte alla campagna d’odio contro gli ebrei nella speranza di ricavarne un vantaggio. Un altro passaggio critico sul quale Abbas ritorna è l’heskem haavara, l’«accordo di trasferimento» che fu stipulato il 25 agosto 1933 tra la Federazione sionista tedesca, la Banca anglo-palestinese (un organismo dell’Agenzia ebraica, che presiedeva allo sviluppo dell’insediamento ebraico nella Palestina sotto il mandato britannico) e le autorità economiche della Germania nazista. L’oggetto dell’accordo era l’agevolazione dell’emigrazione ebraica dalla Germania verso la Palestina. Affinché ciò avvenisse ai migranti veniva richiesto di lasciare nella madrepatria buona parte dei loro averi, che sarebbe poi stati trasferiti successivamente come beni di esportazione tedeschi. Nella libellistica contro il Israele non è infrequente che tale contratto venga additato come la concreta dimostrazione di una collusione con il nazismo: l’interesse che quest’ultimo aveva di rendere i territori della Germania liberi dalla presenza di ebrei si sarebbe incontrato con quelli del movimento sionista per l’accelerazione dell’immigrazione, anche dinanzi all’ostilità degli inglesi, preoccupati di dovere fare fronte ad un repentino mutamento degli equilibri demografici. Il libro di Abbas cita erroneamente Raul Hilberg, attribuendogli l’affermazione per la quale le vittime dell’Olocausto furono un numero inferiore al milione e rimanda alle tesi di Robert Faurisson sull’inesistenza della camere a gas. L’autore ha poi parzialmente rivisto le sue precedenti affermazioni. Nel 2003, divenuto Primo ministro palestinese, intervistato dal quotidiano israeliano Haaretz disse che «l’Olocausto fu un terribile, imperdonabile crimine contro la nazione ebraica, un crimine contro l’umanità che non può essere accettato». Al New York Times dichiarò che «quando scrissi The Other Side […] eravamo in guerra con Israele. Oggi non ripeterei quelle affermazioni»”. Ipse dixit! Dal 2003 ad oggi sono passati quindici anni anche per il gruppo dirigente palestinese. Di declino nell’immobilismo. Non è un vantaggio per nessuno, a partire dalla stessa Israele. Ma quello che è un problema per certuni rischia di essere un dramma infinito per altri. Disgraziata è la collettività che non sappia esprimere un’élite dirigente all’altezza dei compiti che l’attendono.

Claudio Vercelli

(6 maggio 2018)