MEMORIA I bambini custoditi dai monti
Sergio Luzzatto / I BAMBINI DI MOSHE / Einaudi Storia
Dal 2012 sono direttamente coinvolto nell’impegnativo percorso dedicato alla riscoperta, la conoscenza e la tutela della Memoria di Sciesopoli Ebraica (1945-1948), la complessa struttura fisica e organizzativa che tra il 1945 e il 1948 accolse, curò, amò, riportò alla vita e permise l’aliyah di circa 800 bambini ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio, orfani dei genitori che in quei campi avevano trovato la morte. Quei bambini erano stati raccolti nei campi e nei luoghi dove erano nascosti, e condotti dalle Palestine Units verso l’Italia, trampolino per Eretz Israel. Nel 2012 era una storia pressoché sconosciuta perfino agli stessi abitanti di Selvino, il paesino della Bergamasca arrampicato sui costoni montuosi tra Valle Seriana e Val Brembana, che la ospitò. Da allora mi occupo quasi a tempo pieno di quella straordinaria pagina di storia di vita e di rigenerazione. Oggi l’abbiamo faticosamente resa abbastanza nota. Quella storia meritava, dopo i due libri di Aaron Megged (Il viaggio verso la terra promessa, Mazzotta, 1997) e di Anna Scandella (Aliyah Bet, Unicopli, 2016), e parecchi articoli miei e di più autorevoli altri, un’opera del genere. Non posso quindi esimermi dall’entrare nel coro mediatico, per lo più apertamente elogiativo, sviluppatosi intorno a questo nuovo libro. E approfittarne, perché esso contribuisce alla diffusione della conoscenza di aspetti rilevanti di Sciesopoli Ebraica, e consegna quell’esperienza a una notorietà inaspettata. In segno di riconoscenza verso l’autore e l’editore per questo impareggiabile servizio, I bambini di Moshe. Gli orfani della Shoah e la nascita di Israele sarà esposto nel Museo Memoriale di Sciesopoli Ebraica che, a Selvino, stiamo realizzando, insieme con la Giunta Comunale, l’UCEI, il CDEC, il Memoriale della Shoah di Milano, il MIBACT e alcuni altri collaboratori, nel palazzo comunale, e che speriamo di inaugurare entro il 2018. Mi aspettavo un libro diverso, che portasse a compimento le ricerche in atto. Non è così, e ciò è anche buona cosa: dopo sei anni si apre finalmente una possibilità di confronto. Quella di Moshe Zeiri, che di Sciesopoli Ebraica fu il direttore, è una grande storia, che merita il dovuto approfondimento. Ho letto e riletto questo libro, e a ogni rilettura aumentavano i miei appunti e gli arricchimenti della mia conoscenza di questa vicenda. Trovo anche che questo libro abbia affinità con Se non ora, quando?, che io ritengo la più grande narrazione mai fatta della Bricha, quasi fosse un tentativo di ammenda dell’autore rispetto ai dubbi che aveva voluto insinuare sulla figura di Primo Levi partigiano nel suo precedente Partigia. Scritto con penna felice, il libro è di buona letterarietà e di efficace divulgazione. È un testo prevalentemente narrativo fin dalle prime pagine. E siccome Luzzatto con la scrittura ci sa fare, è anche ironico: per esempio, quando racconta dell’efficacia del navigatore satellitare per rintracciare a Gerusalemme l’ubicazione di Yad Vashem, cui uno storico di questioni ebraiche sa certamente andare a occhi chiusi. E il libro si fregia anche, qualche volta, di linguaggio ammiccante: “Zeiri fa tutt’uno con Matilde. Si è capito al volo anche con la giovane donna di cui Cantoni – lo scapolo Cantoni – più si fida al mondo: Matilde Cassin”. Il corsivo è naturalmente il mio. Luzzatto riporta che “Moshe Zeiri era consapevole del potenziale narrativo (se così si può definirlo) che emanava dalla comunità di Sciesopoli.’Fossi dotato del talento della scrittura, quanto materiale si potrebbe mettere su carta a partire da qui!’ Queste parole Zeiri le disse anche al nostro amico regista cinematografico Gady Castel, con cui ho combattuto la difficile battaglia che presto porterà sugli schermi il film realizzato da RAI Cinema su Sciesopoli Ebraica. Ma il libro si presenta visivamente male nella copertina, che trovo sia cinicamente commerciale. Perché l’immagine della cupola della Sala dei Nomi di Yad Vashem, che lo presenta come fosse una storia di distruzione, per un racconto che invece è di vita e di rinascita? Forse che, andando questo libro in vetrina intorno al Giorno della Memoria, si volesse più facilmente attirare l’attenzione emotiva dei possibili acquirenti? Il risvolto di copertina, poi, racconta di una storia “picaresca” (???), e sicuramente quella storia “picaresca” non è. E la segnala come una vicenda di “redenzione” (!!!): avrei preferito di “riscatto” o “liberazione”, che ne sono sinonimi laici. Non condivido l’enfasi con cui vi si parla di “Terra promessa”, non cioè del raggiungimento di uno stato di diritto, ma di qualcosa di concesso. O quando attribuisce al solo Moshe Zeiri la fondazione di Sciesopoli Ebraica, che fu invece il frutto della collaborazione di molti. E nemmeno va bene che tratti ambiguamente quella storia come una “storia di un’illusione”. La quarta di copertina poi parla di “circa settecento giovanissimi”, mentre tutte le fonti note raccontano di circa 800. Si tratta del frutto frettoloso di un redattore della casa editrice? L’editore, Einaudi Storia, non è stato all’altezza del libro? Sono andato però oltre la copertina. Luzzatto racconta l’epopea di Moshe Zeiri attraverso le parole di alcuni di quei “Bambini di Selvino”, attraverso una ricca documentazione, e attraverso il deposito epistolare versato agli archivi di Yad Vashem dalla figlia di Moshe, Nitza. Questi i tre assi di questa narrazione di Moshe Zeiri, una agiografia ragionata che, a leggerla, soprattutto nelle pagine sulla Galizia originaria del protagonista, sembra di navigare tra le pagine e le voci della migliore letteratura yiddish. Questa, a mio avviso, la parte più affascinante, più accattivante del libro. Moshe Zeiri, ebreo galiziano, palestinese, volontario nell’esercito britannico, compagnia Solel Boneh, è comunque l’eroe di Sciesopoli Ebraica, ricordato amorosamente da quei bambini ancora oggi in vita che lo ebbero rigoroso e felice educatore a Selvino e, prima, a Napoli e Milano. Zeiri, nella Milano appena liberata, è stato capace di cogliere la disponibilità del sindaco Antonio Greppi, che sulla ex colonia di Selvino aveva autorità, del prefetto Raffaele Lombardi, di Ferruccio Parri, del CLN, e l’aiuto della Comunità ebraica milanese e di Raffaele Cantoni, per realizzare un progetto arditissimo che ha riscattato dal suo passato, come in un contrappasso, quel luogo in cui si formavano alla guerra e al razzismo i Balilla milanesi. Il sindaco Greppi aveva aderito con partecipazione profonda, forse anche per il fatto di avere avuto ucciso, proprio sotto casa, il giovane figlio Mario, partigiano. Sergio Luzzatto – che mi ha fatto l’onore di una citazione in bibliografia, forse due – dovrebbe però porre riparo a alcune questioni che il libro non risolve, e che forse non potrebbe. Sciesopoli Ebraica non può essere paragonata a un orfanotrofio. Le sue finalità andavano ben oltre: essa fu una fucina di energie per portare a resilienza i suoi 800 ospiti e per contribuire alla rinascita del popolo ebraico e di Israele. Lì i “Bambini di Selvino” furono curati, amati, sfamati, vestiti, istruiti, arricchiti di una lingua comune, l’ebraico, riportati al sorriso, al gioco, all’espressione anche creativa di sé, dall’opera di Moshe Zeiri e di quanti collaborarono con lui: da Eugenia Cohen a Matilde Cassin, da Pessia Kissin a Fetter Moishe, da Reuven Donath a Reuven Cohen, da Aharon Peretz al dentista Karol, da Gary Bertini a Teddy Beeri, ai partigiani italiani, oltre a Annamaria Torriani e Luigi Gorini, divenuto biologo di prim’ordine e di fama internazionale, che viene invece presentato come “un biochimico di Pavia che gli uomini della Resistenza avevano nominato commissario di Sciesopoli”. Perché Gorini non viene individuato anche come non firmatario del giuramento al Duce, quindi espulso dall’università, quindi importante figura resistenziale? Basta cercarlo nella Treccani. Anche se spesso assente per gli impegni parigini di ricerca al Pasteur, lui e sua moglie sono stati fondamentali a Selvino. Non furono da meno l’OSE, l’apolitico Joint, gli organismi della solidarietà ebraica internazionale, Marcello Cantoni, Raffaele Cantoni. Perché tutti questi personaggi e organismi sono poco o nulla presenti in questo libro? Perché Luzzatto non ha ritenuto di riportare il succo delle carte di Raffaele Cantoni sui rapporti con la Resistenza in quegli anni, per esempio? Si legge a più riprese di Janusz Korczak. Sintetizzo le parole dell’autore: “Pedagogicamente parlando, la stella polare di Moshe Zeiri è quella di Janusz Korczak, che aveva fondato la Casa dell’Orfano di Varsavia, la repubblica dei bambini di via Krochmalna su cui si era abbattuta la scure della soluzione finale: la deportazione e lo sterminio a Treblinka”. Chiederei a Luzzatto se ha trovato un documento, o anche solo una testimonianza che certifichi l’adozione della pedagogia di Korczak a Sciesopoli Ebraica. Io l’ho sempre pensato, ma non avendone trovata alcuna certificazione, mi sono sempre astenuto dal sostenerlo. Dicendo di Recha Freier, l’eroina salvatrice di tantissimi ragazzi ebrei, tra i quali quelli di Villa Emma, “carismatica signora”, Luzzatto, riferendosi evidentemente al cosiddetto Memorandum Hartglas, introduce il tema della presunta “selezione” effettuata dai sionisti per l’immigrazione in Eretz Israel. Scrive: “Dalla Palestina, i capi sionisti insistevano sulla delicatezza del processo di selezione degli immigranti. Nell’impossibilita di accogliere tutti, occorreva far valere il «crudele criterio» del sionismo. Già emissario della Histadrut in Germania, e collaboratore stretto di Recha Freier nel progetto della JugendAlijah, fu un ebreo italiano divenuto influente in Palestina, Enzo Sereni”. Ma non esiste nella morale comune la prescrizione del “Prima le donne e i bambini!”, perché portatori di vita? Recha Freier si è inimicata la dirigenza ebraica per aver salvato sul Pentcho 50 ebrei polacchi che non avrebbero avuto la precedenza su ebrei tedeschi. Quale la relazione tra questi fatti e la storia di Sciesopoli Ebraica? Dagli elenchi, in buona parte ricostruiti, dei partenti per l’aliyah da Selvino, non appare nessuna “selezione”. Zeiri, per di più, era autonomo nelle scelte. Decise a un certo punto di non utilizzare più il sostegno che gli veniva dall’organizzazione sionista Gordonia perché nazionalista, preferendo quello dell’apolitico Joint che metteva insieme le energie di ogni sfaccettatura possibile del mondo ebraico, sionisti e no, per la salvezza delle vite. Gordonia era stato agli inizi il vessillo inastato a Sciesopoli Ebraica, ben presto però abbandonato per un sionismo più severo e laico. Più avanti si legge dei collaborazionisti ebrei: “A Berlino, i funzionari nazisti specializzati in questioni giudaiche fanno il possibile per cooperare con i sionisti tedeschi.” E, subito dopo: “Nazisti come Eichmann rappresentano alleati oggettivi di sionisti come la Freier, fondatrice e animatrice della Jugend-Alijah”. Io direi esattamente il contrario: che cioè i sionisti tedeschi trovarono il modo di sfruttare ogni possibile spiraglio per porre in salvo vite umane. Arendt e lo stesso Levi hanno già spiegato molto in proposito, la prima ha chiarito tutto. In che modo l’alleanza sionismoHitler avrebbe a che fare con i Bambini di Moshe? Non so se l’organizzazione fondata dalla Freier si chiamasse anche “Jugendalijah”, ma so che il suo nome esatto è Judische Jugendhilfe. “La Shoah aveva selezionato la specie dei sopravvissuti privilegiando non, darwinianamente, gli individui più adatti, ma piuttosto, casualmente, gli individui più fortunati. O addirittura premiando, malignamente, gli individui più votati a un accomodamento con i carnefici: i più corrotti nel fisico e nel morale”. Il pensiero espresso da Luzzatto in queste righe non è condivisibile. Se pur possibile, e probabilmente vero, che molti di loro fossero facilmente corruttibili (dato quello che avevano passato!), parlare di “selezione” della Shoah trovo che sia improprio. Siamo alle “responsabilità ebraiche nello sterminio degli ebrei”? A proposito di Aliyah bet scrive Luzzatto: “Organizzazione sistematica della cosiddetta Brichah, cioè di una «fuga» generalizzata verso la Palestina degli ebrei sopravvissuti alla Soluzione finale”. “Fuga generalizzata”? Fu, piuttosto, specifica: fuggivano dai nuovi pogrom. Aggiunge anche che l'”immigrazione illegale degli ebrei nella Terra promessa era in violazione delle quote prescritte dal Libro bianco del 1939″. Certo che era “in violazione”: in violazione dell’indegna omissione di soccorso che chiuse le porte ai perseguitati. A Milano, palazzo Erba Odescalchi, via Unione 5, è stato, tra il 1945 e il 1948, il cardine dell’Aliyah bet dell’Italia settentrionale, insieme all’ufficio clandestino di via Cantù 5 di Yehuda Arazi (Alon), mai nominato in questo libro, e di Ada Ascarelli Sereni, e al campo profughi ebrei di MagentaBoffalora, del quale Luzzatto scrive: ” A Magenta emissari giunti dalla Palestina andavano organizzando un’attività di copertura. In teoria, una colonia agricola di preparazione dei giovani in vista dell’aliyah in Palestina. Di fatto, un deposito clandestino di armi e munizioni rubate nei campi militari britannici [qui Luzzatto si riferisce al furto di 5.000 fucili presi alla Polizia britannica, riportato da Martina Ravagnan. Ndr], e dissimulate in una finta fattoria”. Luzzatto insiste spesso sul concetto di “finta fattoria di Magenta”. Di fatto nel campo per profughi ebrei di Magenta-Boffalora c’era un deposito segreto di armi. È noto e lo testimonia anche Aviva Maimon, volontaria del campo. Credo anzi di ricordare che lì di nascondigli di armi ce ne fossero almeno 27. Ma quel campo è la principale sede dirigenziale dell’Aliyah bet in Italia, e l’innominato Yehuda Arazi (Alon), che ne era responsabile, era ai vertici del Mossad. Che il campo di MagentaBoffalora fosse il centro organizzativo della emigrazione illegale, e che vi si raccogliessero, si smontassero e imballassero le armi che molti ex combattenti partigiani fornirono all’Hagana, è cosa nota e ovvia. A Magenta come a Chieri e altrove. L’intera operazione era rischiosissima, e il futuro Israele lottava per il suo avvento coi denti e con le unghie. Lo scopo di quel campo era però di essere sede per il rapido passaggio di gruppi di profughi, inviati lì per l’addestramento al viaggio. A Magenta-Boffalora si spendono tutte le energie per organizzarli. I gruppi, formati a Magenta e a Tradate, si fermavano poco tempo, e partivano in mille per volta (lo dice ancora Aviva Maimon). E intorno alla bombardata Villa La Fagiana c’era attività di accoglienza e ospitalità, ricordata dai testimoni, e da Luzzatto stesso. Anche bambini vi furono accolti. Un ragazzo vi poté trascorrere la sua prima estate di libertà non tanto (o non solo) preparandosi a salire in Palestina, ma anche – semplicemente – ritornando bambino. E allora perché insistere con quel “finta fattoria di Magenta”? “Loro non sapevano come trattarci”. Questa frase, pur da considerare con rispetto perché detta da uno di quei Bambini, messa così, non rende conto della complessità delle cose che accadevano a Sciesopoli Ebraica, né delle parole di tutti gli altri bambini e bambine che ricordano l’amore ricevuto (li abbiamo sentiti con le nostre orecchie) e il senso di casa ritrovata. Perché Luzzatto enfatizza le note critiche, che pur ebbero ragione di essere? Riportare così le parole di un Bambino potrebbe dare adito a una visione revisionista di quella storia tendente a sminuire l’opera di quei volontari e a pensare che l’autore abbia fatto un uso piuttosto disinvolto delle fonti. O forse Luzzatto non ha ascoltato gli stessi Bambini di Selvino incontrati e ascoltati anche da me? Luzzatto perviene ad alcune conclusioni: “La storia dei bambini di Moshe è anche la storia di un’illusione. Perché dopo la guerra d’indipendenza del 1948, l’utopia del «kibbutz Selvino» avrebbe finito per scontrarsi, nello Stato di Israele, con la realtà di nuovi (e brutali) rapporti di forza”. Ma qui Luzzatto fa il paio con il risvolto di copertina! Insomma, gli ebrei si trasformano da perseguitati in persecutori? A cosa si riferisce l’autore? Il contributo dei Bambini di Selvino alla guerra di Indipendenza del ’48 è stato delle loro vite. In quella guerra, scatenata dalla non accettazione da parte araba dei confini dettati dalle Nazioni Unite, anche Bambini di Selvino vi furono eroi e vittime. Israele e il sionismo erano per loro garanzia di vita, di libertà, di accettazione dei diversi, di rispetto umano, di salvaguardia dalle persecuzioni, il luogo dei fondamenti civili espressi da Ben Gurion nel discorso fondativo. È in quel contesto che va considerata l’aliyah dei Bambini di Selvino, non certo rapportandola alle politiche di Netanyahu o di Begin. Luzzatto riporta anche dell’altro: “Sciesopoli fa gola anche ai partigiani di Sesto San Giovanni, che vorrebbero farne un luogo di convalescenza per ex internati militari”. Ebbene, a Selvino, in quegli anni, esistevano quattro colonie climatiche. Una di esse era Sciesopoli. Fu invece nella colonia “Milano”, messa a loro disposizione dal CLN, che trovarono ospitalità gli operai di Sesto San Giovanni e parecchi IMI, stando a quanto risulta dalle testimonianze e dai documenti dell’ANED e dalle carte dell’ISEC. Perché mettere discordia dove non ce n’è stata? Saranno i partigiani stessi, rappresentati da Gorini, a partecipare alla direzione organizzativa di Sciesopoli Ebraica. Vorrei precisare che Sciesopoli fascista non venne progettata da due architetti, come Luzzatto indica, ma dall’architetto dal doppio cognome Paolo Vietti-Violi, poi partigiano in val d’Ossola, architetto di primaria importanza internazionale nella progettazione di strutture sportive e per la gioventù. Se qualcuno dei Bambini di Selvino ha usato l’espressione “la casa di Mussolini” per Sciesopoli, lo ha fatto riportando le parole di qualche nostalgico, anche contemporaneo, che così l’ha definita o la definisce. Non certo così venne individuata dai veri protagonisti di quella storia. Intitolare con questa dizione addirittura un capitolo, il sesto, a me appare cosa eccessiva. Si ha l’impressione che Luzzatto in questo libro abbracci discutibili posizioni antisioniste approfittando di una storia di profonda necessità, e che la straordinaria vicenda di Sciesopoli Ebraica gli sia servita per finalità non consone. Insomma, rimango perplesso e sarebbe doveroso un chiarimento da parte sua. E mi sembra importante riportare le parole di Isaak Bashevitz Singer: “Se [in Europa] nel ventesimo secolo un ebreo poteva ancora essere accusato di omicidio rituale, e avvocati e professori potevano sostenere apertamente che gli ebrei usano sangue cristiano per impastare le azzime pasquali, era tempo di fuggire” (Keyla la rossa, p. 173).
Marco Cavallarin, Pagine Ebraiche, maggio 2018