Società – Pericolo radicalismi, le religioni a confronto
Esiste una sottile ma importante differenza di significato fra il termine «radicalità» e quelli più usati di «radicalismo» o «radicalizzazione ». Fra questi ultimi, il primo fa pensare all’interpretazione estrema di una consapevole ideologia politica, ed il secondo ad un processo, a un movimento di trasformazione verso l’acquisizione di tali posizioni estreme. In termini sociologici «radicalità» indica invece uno stato più magmatico e più carico di emotività: un insieme di atteggiamenti o di azioni che rimarcano una volontà e un sentimento di rottura rispetto al sistema politico, sociale e culturale, e più in generale rispetto alle norme e ai valori vigenti in una società. n questi termini, per lo meno, il termine «radicalità» è utilizzato in una ricerca recentissima, apparsa nelle librerie francesi nei primi giorni di aprile: La tentation radicale. Enquête auprès des lycéens (a cura di Olivier Galland e Anne Muxel). Si tratta di una indagine che fa parte di più ampio progetto di studi promosso dal CNRS (il CNR francese) a seguito degli attentati del 2015. L’attenzione dei ricercatori è rivolta a molteplici forme di radicalità: religiosa, politica, sociale come pure a quella legata alle diverse forme di interazione quotidiana. Va preliminarmente chiarito che il libro non muove affatto dall’idea di una connessione meccanica fra propensione alla radicalità e attualizzazione estrema di essa nella forma dell’atto violento, esito che ovviamente riguarda una frazione assai piccola di soggetti. L’obiettivo è piuttosto quello di indagare i fattori che accompagnano e facilitano il consolidarsi di una simile propensione, ed il grado di accettabilità che essa incontra fra i giovani francesi. Le note che seguono, peraltro, si riferiscono a uno solo di questi aspetti, e specificamente alla radicalità religiosa, una forma di fondamentalismo che più prudentemente gli autori definiscono come «assolutismo religioso». Il fondamentalismo è un tratto, o una possibilità, che evidentemente riguarda in qualche misura tutte le religioni, ma è innegabile che, nella storia recente, le tendenze radicali abbiano assunto una ampiezza e una caratterizzazione del tutto particolari in alcune interpretazioni dell’Islam: precisamente questo è il fuoco principale dell’indagine. È essenziale, prima di presentare alcuni degli esiti più significativi della ricerca, delinearne rapidamente l’impianto metodologico, perché da questo deriva un particolare elemento di solidità e di originalità dei risultati. La ricerca si è avvalsa infatti di due grandi basi di dati. La prima, particolarmente numerosa, consiste nella rilevazione attraverso un questionario degli atteggiamenti di circa 7000 studenti degli istituti scolastici di vario indirizzo e diversamente collocati nel territorio del Paese (ma con una attenzione particolare alle aree maggiormente «a rischio», cioè alle «zone urbane sensibili», ZUS). La seconda, di dimensioni più contenute (1800 15-17enni), è costituita da un campione strettamente rappresentativo, interrogato con il medesimo questionario e utile per controllare gli andamenti emersi dalla prima fonte. Circostanza particolarmente importante, entrambe le rilevazioni comprendono giovani di tutte le appartenenze religiose (e anche di nessuna appartenenza dichiarata) e questo vale a correggere la tendenza – comune a molte ricerche condotte sul medesimo tema – a utilizzare campioni costituiti esclusivamente da giovani musulmani, impostazione che limita fortemente la possibilità di distinguere con chiarezza se i fattori legati alla radicalità siano gli stessi nel caso dei musulmani e non musulmani, con il risultato di impedire la piena comprensibilità degli andamenti e le possibilità di confronto. Altro importante e ricorrente fattore di distorsione opportunamente evitato dagli autori e quello di orientare la ricerca verso gruppuscoli già costituiti nell’ambito delle frange estremiste attive (cosa che impedisce di cogliere i fattori predisponenti), e di utilizzare metodologie qualitative di dubbia rappresentatività, o magari biografie selezionate di profili in qualche misura presentati come «tipici», senza consentire forme documentate di controllo di tale presunta tipicità. La tentation radicale è al contrario di una indagine quantitativa basata su una trattazione statisticamente assai robusta di una notevole mole di dati. Dalla ricerca emergono informazioni importanti e in qualche misura drammatiche, indicative del clima di indifferenza o addirittura di favore che settori significativi della popolazione manifestano in ordine agli attentati terroristici, come quello contro Charlie Hebdo, che hanno duramente colpito il paese negli ultimi anni. Il contributo più significativo, tuttavia, non è costituito da simili informazioni, certamente preoccupanti ma in larga parte già note o già temute, quanto piuttosto nel modello esplicativo che viene proposto per dar conto degli andamenti rilevati. Quanto dunque all’assolutismo religioso (operativizzato nel questionario di indagine come l’idea che la religione detenga una verità assoluta non solo nelle questioni religiose, ma anche nel mondo secolare) i risultati mostrano che i giovani musulmani si orientano verso questa risposta con una frequenza circa cinque volte maggiore che non i cristiani. Il punto fondamentale è tuttavia costituito dalle variabili che sembrano determinare questo andamento. L’indagine perviene infatti a smentire con buona evidenza alcuni degli argomenti più tipicamente e tradizionalmente utilizzati dai sociologi e dagli psicologi sociali per dar contro della propensione alla radicalità religiosa. Argomenti in realtà ben noti, che sono costituiti da infinite modulazioni di due teorie fondamentali. La prima fa riferimento alla condizione di minoranza oggettivamente marginalizzata e in condizioni di tendenziale esclusione in termini socio- economici Marginalizzazione e umiliazione producono sentimenti di umiliazione e di collera e nella sua versione più comune questa analisi rappresenta tipicamente i giovani delle banlieues come esasperati dalla convinzione di essere senza futuro né prospettive, come richiusi in un ghetto senza uscita. L’altra consiste più strettamente in una teoria dell’identità sociale. Il fatto stesso di appartenere a gruppi minoritari ben identificabili comporta una sensazione di minaccia, e la conseguente rigida divisione dello spazio sociale in due blocchi ostili in cui il «noi», positivamente valutato in termini affettivamente molto carichi, è definitivamente contrapposto alla maggioranza costituita da «loro, il male». Ebbene, lo studio degli andamenti statistici (nella forma dell’analisi della regressione) mostra il carattere semplicistico e in definitiva consolatorio di queste spiegazioni tradizionali. I fattori relativi alla marginalizzazione socio-economica risultano infatti praticamente irrilevanti nel determinale la propensione al fondamentalismo, molto debole l’effetto dell’appartenenza a gruppi di minoranza, debole la connessione con il rendimento scolastico e con la percezione più o meno «ottimista» del proprio futuro. Al contrario, è proprio il fattore «religione di appartenenza» a esercitare un ruolo decisivo: l’«effetto Islam» è netto, e a parità di altre condizioni i giovani musulmani hanno probabilità cinque volte maggiore dei cristiani di aderire a un punto di vista assolutista- fondamentalista in materia di religione. L’introduzione successiva di altre variabili, inoltre, non migliora che assai debolmente il modello: in termini meno tecnici ciò significa che esse esercitano un certo effetto sulla propensione a condividere l’assolutismo religioso, senza però indebolire la preponderante influenza dell’appartenenza. Così è per i riferimenti a eventuali situazioni di disagio familiare (alcune teorie, infatti, chiamano in causa come elemento esplicativo una frattura della socializzazione familiare, consistente nel rifiuto dei genitori percepiti come umiliati e sfruttati) ed al disagio identitario. Se pure quest’ultimo aumenta la probabilità di condividere tesi fondamentaliste, non è per effetto di esso che i giovani musulmani mostrano di aderirvi più di altri. Altra cosa, semmai, un effetto contesto: la probabilità per un giovane musulmano di propendere per idee assolutiste aumenta, a parità di altre condizioni, nel caso che nella sua scuola ci sia una forte presenza musulmana. L’assolutismo-fondamentalismo arriva a legittimare la violenza in ambito religioso? Anche in questo caso le tendenze statistiche sono nette, e mostrano che gli studenti musulmani hanno una probabilità doppia rispetto ai cristiani di rispondere affermativamente e giustificare la guerra in nome della religione. Anche in questo caso variabili socio-economiche o identitarie mostrano scarsissimo peso, con il risultato che le tesi che tendono a spiegare la radicalità attraverso l’esclusione o la povertà non sono confermate. È bensì vero che l’indagine ha interessato persone molto giovani, probabilmente non ancora passate attraverso tutte le strettoie e le frustrazioni che l’esclusione e la povertà comportano nel ciclo di vita, ma resta la particolare solidità statistica degli andamenti rilevati e il fatto che i fattori socioeconomici che molti studi presentano come una determinante evidente della radicalizzazione non si mostrano affatto, in realtà, predittori efficaci di questo esito. Tutto ciò significa che la spiegazione del fondamentalismo va cercata altrove, al di fuori degli schemi tranquillizzanti e un poco scontati – l’esclusione, la povertà, lo spaesamento identitario – che le indagini sociologiche hanno preferito finora. Un «effetto Islam», cioè determinate caratteristiche specifiche di questa appartenenza e dell’ideologia che caratterizza alcune sue componenti e interpretazioni – è l’inquietante conclusione degli autori – costituisce l’elemento esplicativamente decisivo. Un’ultima considerazione a questo riguardo, che certamente non concorre a rendere più sereno in quadro, sta nel fatto che i giovani musulmani mostrano un forte recupero – se mai vi è stato allontanamento – della propria identità religiosa anche sul versante che riguarda strettamente la pratica religiosa. La forte religiosità dei giovani musulmani risulta infatti con assoluta evidenza dalla ricerca. Il grafico che precede, costruito attraverso una struttura complessiva e molto integrata di indicatori di pratica religiosa (che vanno dalle regole alimentari alla scelta degli amici, allo spazio accordato alla religione nella vita intima e personale) mostra senza equivoci il maggior «vantaggio» dei giovani musulmani rispetto ad appartenenze religiose assai più esigue e spesso limitate a poco più che dichiarazioni formali. Non c’è dubbio che queste analisi richiedano una valutazione attenta non solo dello svolgimento tecnico, ma anche, e forse soprattutto, delle argomentazioni esplicative sommariamente illustrate; e non c’è dubbio che siano necessarie ulteriori conferme empiriche, capaci di replicare i risultati, ed in particolare di indebolire le differenze che questa indagine fa registrare talvolta fra il campione rappresentativo e la rilevazione più ampia. Resta tuttavia il fatto che esse indicano un nodo problematico non affrontabile con le «solite» categorie con le quali la teoria sociologica tende ad analizzare crisi e anomie che maturano all’interno delle proprie coordinate culturali. Esse denunciano una specificità che è forse non solo inutile, ma anche concettualmente arrogante pensare di affrontare senza un radicale ripensamento intellettuale e, nel senso più ampio, politico.
Enzo Campelli, Pagine Ebraiche, maggio 2018