Leo Longanesi e gli ebrei
L’italiano sogna di non lavorare, affermava Leo Longanesi (1905-1957); non era vero, anzi, era infamante, ma lui amava scrivere tutto e il contrario di tutto e, a dire il vero, non era stata ancora escogitata l’elemosina di Stato per sostenere cotanta assurdità (ciò è accaduto nel 1958), un’elargizione che avrebbe potuto costringerci a riscrivere il comma primo del primo articolo della Costituzione (ma anche il secondo non gode di grande salute). Scrittore, editore, creatore di giornali e riviste, innovatore, eccentrico e contraddittorio, lanciò le più grandi firme del giornalismo italiano. Di bassissima statura, non esitò a oscillare, moralmente, fra contrapposti poli; basti l’esempio di un suo articolo zeppo d’insulti contro Arturo Toscanini, nel quale, secondo Sergio Romano, sembrava rivendicare la paternità del famoso schiaffo dato nel 1931 al celebre Direttore d’orchestra, per via del suo rifiuto di eseguire oppure di far eseguire prima di un suo concerto a Bologna, la Marcia Reale e Giovinezza. Avrebbe millantato, in ogni caso, perché dalla sua bassezza avrebbe potuto, tutt’al più, aggredirne gli stinchi.
Il suo primo libro è stato il “Vade-mecum del perfetto fascista seguito da dieci assiomi per il milite ovvero Avvisi ideali”, Firenze, Vallecchi, 1926; forse passibile di più letture e che, per ragioni che potrebbero sfuggire ai più, mi ricorda il “Manual del perfecto idiota latinoamericano”, un’opera collettanea prefata da Mario Vargas Llosa, edita in Italia da Bietti. Un titolo non così immaginifico, se si pensa che, poco prima di morire, Eduardo Galeano, celeberrimo autore de “Las venas abiertas de América Latina”, raccontò che quando la scrisse non capiva nulla di economia. Libro celeberrimo al punto che Hugo Chávez ne fece dono a Barak Obama durante un vertice, forse in un momento in cui Re Juan Carlos non lo guardava.
Tornando a Leo Longanesi, ricordiamo che ebbe Ennio Flaiano fra i suoi discepoli/collaboratori (autore, fra tanti, di: Tempo di uccidere, Bur, 2000, La solitudine del satiro, Adelphi, 2001, Diario degli errori, Adelphi, 2002), il suo continuatore ideale, forse più di Indro Montanelli, per via del suo umorismo nichilista.
Leo Longanesi pubblicò nel 1948 “In piedi e seduti – 1919/1943”, un libro ontologicamente satirico, come il suo avveniristico rotocalco Omnibus, chiuso nel 1939 perché in un articolo Alberto Savinio (fratello di Giorgio de Chirico) aveva addebitato la morte di Giacomo Leopardi ad una banalissima quanto irriverente diarrea, non indecorosa da sola, quantunque un tantino imbarazzante se accostata alla poesia.
“Nell’ottobre – scrive Longanesi nel citato volume – si inaugura la campagna antisemita e gli italiani scoprono di appartenere alla razza ariana”, per poi constatare che, invece, i nasi italici sono aquilini, i capelli bruni e spesso riccioluti. Questa, però, non era una grande scoperta, avendo fatto un simile commento lo stesso Benito Mussolini ad Emil Ludwig e finanche ad Indro Montanelli. Una certa mattina, racconta ancora Longanesi, sugli argini scuri del Tevere si scorgono gli ebrei costretti a scavar la terra: ”rassegnati, i poveri giudei trascinano adagio le carriole o affondano il badile nel fango lentamente, senza alzare gli occhi”. Dopodiché, Longanesi vede che i giorni successivi il numero di ebrei costretti ai lavori forzati diminuisce di numero ed il loro stesso impegno scema finché, al settimo giorno – ma questa sembra una suggestione della Genesi – non ne vede più alcuno, facendo commentare al di lui padre: “Grazie a D-o, in Italia, tutto finisce così!”.
Eppure, Longanesi nel 1948 doveva pur sapere che se tanti ebrei non si vedevano non lo si doveva ad una sacrosanta allergia ai lavori forzati, ma allo sterminio scientifico non solo degli uomini atti ai lavori, ma anche delle donne, dei vecchi e dei bambini. Perché lo scherzo, recita l’adagio, è bello finché dura poco.
Emanuele Calò, giurista