…rabbinato

Nella sua ultima nota, su queste pagine, Anna Segre confessa che i peggiori insulti degli ultimi tempi li ha ricevuti, in quanto ebrea, da altri ebrei attraverso i social network, e si chiede se ciò sia accaduto anche ad altri. Anna Segre non deve davvero sentirsi sola. L’insulto personale va per la maggiore, ed è la risposta più facile a disposizione di chi non desidera o non è in grado di confrontarsi con gli altri ragionando su un argomento, anziché ricorrendo ad attacchi personali. Purtroppo nessuno li ferma, nessuno sente il dovere di richiamarli al rispetto halakhico del prossimo.
Chi scrive, ad esempio, è sotto attacco in questi giorni per aver osato portare all’attenzione una proposta di legge in discussione al parlamento israeliano in base alla quale il marito che si rifiuta di concedere il ghet (divorzio) alla moglie potrà essere fermato e arrestato in Israele fino a che non si ricreda e scenda a più miti consigli. Osservavo come una legge del genere ponga, innanzitutto, un problema di diritto internazionale. Come farebbe, infatti, la giustizia israeliana ad arrestare un cittadino americano o italiano sulla base di un’esigenza che solo in Israele riveste carattere civile e religioso insieme, mentre altrove ha mero carattere religioso? Nessuno stato al mondo riconoscerebbe come penalmente perseguibile con l’arresto il rifiuto di un marito ebreo di concedere il divorzio alla moglie. Oltretutto il ‘reo’ sarebbe arrestato non per un crimine commesso, in attesa di un processo e quindi di una possibile condanna, ma semplicemente in attesa di un suo ripensamento. Notavo, poi, come una legge del genere si configurerebbe come una assunzione di autorità da parte del rabbinato israeliano nei confronti degli ebrei della Diaspora e, da altra prospettiva, come delegittimazione del rabbinato della Diaspora.
Mi risponde su queste pagine rav Riccardo Di Segni facendomi notare l’enorme difficoltà di convincere un marito renitente a cedere alla richiesta di divorzio della moglie. E precisa, poi, in una risposta più articolata apparsa su un social network, che questo genere di aiuto da Israele è stato richiesto ‘proprio dal rabbinato europeo’.
È fuori discussione che chi scrive non intende misurarsi su questioni di halakhà con rav Di Segni. Peraltro, mai a chi scrive sarebbe passato per la mente di impegnare chicchessia in una discussione sui Sonetti di Shakespeare. Qui, tuttavia, ci si sta preoccupando di non mettere a rischio sia l’identità dell’ebraismo italiano sia l’autorevolezza delle sue istituzioni. Ed è di questo che sembra utile discutere.
Data, dunque, per acquisita la partecipazione alla sofferenza indicibile di una donna cui un marito egoista, sadico e caparbio non voglia concedere la libertà, e data per assodata, d’altro canto, l’assurdità di pretendere che si applichi una legge civile/religiosa ebraica a un cittadino non israeliano (e la cui moglie non sia israeliana), rimane da chiedersi se non vi siano altre vie, interne, locali, autoctone, per ottenere quanto si ritiene umano, giusto e necessario.
Si pensa, per intendersi, a vie halakhiche forti, decisionali, che il rabbinato locale possa perseguire, attraverso soluzioni che sciolgano il nodo. A priori, ad esempio, stabilendo un contratto all’atto del matrimonio che preveda la possibilità di considerare non valido (quindi sciolto de facto) il matrimonio stesso al verificarsi di certe situazioni, il che non necessiterebbe neppure di un ghet a posteriori.
Oppure, con delle takkanot (decreti rabbinici) che integrino o modifichino l’halakhà corrente, dimostrando così competenza, autorevolezza, consapevolezza della propria autorità e una buona dose di coraggio. Si pensa ai molti casi in cui, dopo la Shoah, posekim (decisori di halakhà) di grande coraggio dovettero e seppero emettere takkanot ad hoc per liberare mogli che la Shoah aveva reso vedove bianche. In altri casi, si è trattato di liberare una moglie il cui marito era vivente ma in stato vegetativo permanente. Casi diversi da quello di un marito cosciente e renitente, certo, ma a dimostrazione del fatto che le vie particolari e straordinarie l’halakhà le concepisce. Sta al posek saper individuare nell’halakhà la via più saggia e più umana, dopo debite considerazioni e consultazioni, ma con profondo senso di responsabilità e senza abdicare al proprio ruolo.
L’alternativa di affidarsi a un tribunale rabbinico altro cui delegare i propri compiti delegittima l’autorevolezza dell’istituzione locale, e, soprattutto, affida la regolamentazione di una comunità a un’autorità che non ne conosce storia, tradizioni, identità. Autorità che, mutatis mutandis – e mi si permetta l’analogia leggera – non hanno mai visto né fritto un carciofo alla giudia. L’autonomia delle comunità non è un principio blasfemo, irrispettoso del valore del rabbinato di Israele, ma è coerente con il principio per cui Bavel (l’ebraismo diasporico) ha avuto per secoli una guida – il resh galutà, capo del galut – diversa, e di maggiore autorità (Talmud Bavlì, Horayot 11b) da quella di Eretz Israel. Che la fondazione dello Stato di Israele abbia rimesso in discussione gli equilibri è comprensibile, ma che la Diaspora rinunci del tutto al senso del proprio esistere lo è meno. Tenuto conto, oltretutto, che il rabbinato di Israele interviene di norma solo su questioni che lo tocchino direttamente (i diritti di un cittadino israeliano, una richiesta di ‘aliyà, il riconoscimento di casherut di prodotti di importazione, e casi analoghi). E bisogna anche aggiungere che non sempre ciò che viene deliberato in Israele è universalmente accettato. È il caso, ad esempio, di ghiurim fatti in Israele e non riconosciuti dal rabbinato inglese.
Se si apre la strada perigliosa dell’arresto di un ebreo diasporico in terra di Israele nessuno può escludere a priori possibili estensioni del provvedimento. E ci si potrà scherzare, ma neanche troppo, vista la tendenza al rigore di certa ortodossia. Potremmo, allora, dover temere di non osservare lo Shabbat o di non mangiare casher di Pesach. Si sta ragionando per assurdo, è ovvio, ma è l’unico modo per acquisire consapevolezza dell’assurdità di una strada che si sta per intraprendere.
Alla fine, ciò che si intende affermare qui, al di là del caso specifico delle agunoth (le mogli ‘ancorate’ o ‘abbandonate’), è che l’identità dell’ebraismo italiano, in particolare, la si difende e la si rinsalda rafforzando l’autorevolezza, la credibilità e il riconoscimento esterno delle sue istituzioni, in primis quella rabbinica. Cercare consiglio e conferma rivolgendosi ad altri rabbinati autorevoli è lecito e corretto. Delegare ad altri i propri compiti dichiara debolezza e sudditanza.
Ed è inutile nascondersi dietro il fatidico dito: tutte le polemiche sul ghiur, talora anche pretestuose, sono alimentate non poco dal fatto che la Diaspora teme il giudizio e il possibile non riconoscimento da parte del rabbinato israeliano, il cui unico potere è quello di ostacolare l”alyiah di una persona di cui non riconosce l’ebraicità. E si tratta di quello stesso rabbinato che al momento di riconoscere l’ebraicità dell’affollata emigrazione russa ha applicato una generale sanatoria senza preoccuparsi troppo della sincerità di quelle conversioni e della possibilità di successivo rispetto delle mitzwoth da parte di quei nuovi immigrati.
Tanta carne al fuoco, e non vorrei che questo disperdesse eventuali risposte per mille infiniti e inutili rivoli. Gli argomenti affrontati sono tutti legati fra loro dalla preoccupazione che a indebolire la qualità e l’identità del nostro ebraismo sia la resa di fronte alla forza che altri si assumono, all’esterno, misconoscendo la nostra storia e le nostre tradizioni. Non possiamo affidare la nostra identità, anche in evoluzione, delegando potere sulla nostra vita ebraica ad autorità che non siano le nostre. E se mi si dirà che esse non sono sufficientemente autorevoli, e che l’autorevolezza è altrove, allora proprio a questo ci si dovrà impegnare a rispondere.
Abbiamo bisogno di posekim e abbiamo bisogno che qualcuno si preoccupi, autorevolmente, di prepararli, senza troppi complessi di inferiorità, ma con grande senso di responsabilità. Un rabbinato più forte e più sicuro di sé e delle proprie prerogative sarà una guida più sicura per il nostro ebraismo in crisi.

Dario Calimani, Università di Venezia